I nuovi equilibri – I Paesi Brics e le regole mondiali da cambiare
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero
La recente riunione dei paesi tra loro associati con la sigla BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) ha destato molto interesse e ha dato luogo ad interpretazioni divergenti.
Bisogna ammettere che tanto l’interesse quanto le divergenze sono giustificati.
Come ha opportunamente messo in rilievo Alessandro Campi su queste stesse colonne, i BRICS sono arrivati sulla cresta dell’onda con la non nascosta ambizione di creare una coalizione in qualche modo antagonista nei confronti del potere esercitato dal mondo capitalistico occidentale dei G7.
Si tratta di due club di paesi estremamente diversi nella loro natura e nella loro composizione. I G7 (Stati Uniti, Canada, Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia e Giappone) tutti governati da regimi democratici e i BRICS retti invece da un complesso insieme di autoritarismi e fragili democrazie, con una complicazione che non può che aumentare con l’ammissione di nuovi soci che vanno dall’Argentina all’Egitto, dall’Etiopia all’Iran, fino all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti. Paesi diversi e spesso in contrasto fra di loro non solo per sistema di governo, ma anche per livello di reddito, tasso di crescita e scelte di politica economica.
L’interesse della riunione dei BRICS a Johannesburg deriva dal fatto che essa ha sostanzialmente proposto la costruzione di un blocco di paesi comprendente il 47% della popolazione mondiale, con un Prodotto Lordo pari al 37% del totale, di fronte al 9,8% e al 29,8% in mano ai G7.
La valutazione sulle conseguenze concrete di questo complicato disegno non può che divergere se si guarda all’oggi o, invece, a un più lontano futuro.
L’idea che i BRICS possano formare in breve tempo un comitato per governare il mondo, scalzando il primato del dollaro, non ha nessuna possibilità di essere messa in atto in un prevedibile arco di tempo: troppe sono le differenze fra i paesi che aspirano ad essere i nuovi protagonisti perché possano costruire rapidamente una strategia comune.
Il dollaro raggiunge infatti ancora il 60% delle riserve mondiali in valuta estera, a cui segue l’Euro con il 21%, mentre addirittura l’80% delle transazioni internazionali è denominato in dollari. Il primato della valuta americana avrebbe potuto essere affiancato solo dall’Euro se l’ascesa della moneta europea non fosse stata frenata dalla crisi finanziaria dello scorso decennio, ma difficilmente può essere messo in pericolo da paesi che, pur lamentandone l’eccessiva dipendenza, hanno istituzioni troppo diverse per imporre una credibile alternativa.
L’obiettivo di lungo periodo è invece più realistico. Esso aspira ad aggregare in un comune progetto una crescente parte dei paesi del mondo, in modo da cambiare col tempo i rapporti di forza e le regole sulle quali, dopo la Seconda Guerra, era stata fondata l’economia mondiale. Un disegno credibile in un futuro non lontanissimo. Basta riflettere sul fatto che, proprio in questi giorni, il commercio cinese con i paesi in via di sviluppo ha, per la prima volta, superato quello con Stati Uniti, Unione Europea e Giappone messi insieme.
Non è inoltre di scarsa importanza rilevare che la decisione di allargamento del club dei BRICS comprende anche l’Iran e l’Arabia Saudita, cioè due grandi esportatori di petrolio, recentemente riavvicinati da una paziente opera di mediazione cinese.
Il vero obiettivo finale di questa operazione è quindi la costruzione di una grande alleanza tra i BRICS e i 152 paesi in via di sviluppo che, secondo le statistiche dell’ONU, formano la maggioranza dominante dei 193 paesi membri delle Nazioni Unite.
Si tratta quindi di una strategia volta a cambiare progressivamente i rapporti di forza e le regole fissate da pochi paesi per sostituirle con un nuovo multilateralismo che tenga conto non solo del ruolo giocato da paesi rilevanti come la Cina e l’India, ma includa anche la grande maggioranza dei paesi emergenti.
Il disegno di lungo periodo di questo allargamento dei BRICS è quindi la creazione di quello che viene chiamato “Global South” cioè una grande aggregazione dei paesi in via di sviluppo.
Questo allo scopo di creare nuovi modelli di cooperazione economica e finanziaria e di modificare gli statuti e i modi di operare della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale, delle agenzie delle Nazioni Unite e delle altre organizzazioni internazionali, per renderli coerenti con la nuova realtà.
Non è un obiettivo facilmente raggiungibile, ma le tensioni politiche e le guerre commerciali hanno aperto nuove prospettive e nuove alleanze, alle quali la conferenza di Johannesburg ha dato una direzione di marcia, anche se non ancora un programma di lavoro.
Quando il quadro della politica mondiale cambia in modo così radicale, sarebbe doveroso convocare una conferenza globale per ridiscutere tutte le regole su cui si fondano gli attuali equilibri del pianeta.
Oggi non vi è però alcuna leadership capace di portare avanti questo necessario progetto e i governi dell’occidente democratico puntano solo sul fatto che le esistenti tensioni fra Cina e India e le diversità fra i diversi BRICS possano rinviare all’infinito la costruzione del “Global South“.
Non mi sembra una strategia lungimirante perché, essendo cambiato il mondo, il cambiamento delle regole che lo governano è, prima o poi, inevitabile.
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