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Si rinforza la cortina di ferro tra Cina e Occidente


La cortina di ferro tra Cina e Occidente


Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 27 luglio 2024

Sono molte le tensioni e le divisioni esistenti all’interno degli Stati Uniti, ma tutta la politica americana trova un unico punto di convergenza: l’ostilità nei confronti della Cina.

Lo stesso atteggiamento di estraneità e ostentata diversità di prospettive, naturalmente in direzione opposta, emerge inequivocabilmente nelle conclusioni del recente terzo plenum del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese, anche se esse non sono esplicitamente riferite agli Stati Uniti, ma al cammino che la Cina dovrà percorrere nel futuro.

Sul plenum si erano concentrate notevoli aspettative. E’ infatti tradizione cinese che questo avvenimento, con scadenza annuale, assuma una particolare importanza nel secondo anno successivo al congresso nazionale del Partito (il più recente si è svolto nel 2022). In questo caso l’attesa era ancora maggiore in quanto la data canonica in cui avrebbe dovuto svolgersi il plenum cadeva nel novembre dello scorso anno e mai sono state rese pubbliche le ragioni di questo lungo rinvio.

Il lunghissimo comunicato non presenta novità sostanziali riguardo alle concrete decisioni di politica economica che pensavamo essere all’ordine del giorno, ma rende ancora più evidente la distanza e che si sta producendo nel mondo, facendo soprattutto emergere un’ancora più forte divaricazione fra Cina e Stati Uniti.

Date le difficoltà nella crescita cinese (che pure naviga ancora ufficialmente fra il 4% e il 5%) e le progressive chiusure del commercio internazionale, si attendevano decisioni volte ad accrescere i consumi interni, ma nessun sostanzioso passo in avanti è stato compiuto. Sono stati elencati tutti gli strumenti dedicati a rafforzare il livello di una “economia socialista di mercato” e i grandi obiettivi da raggiungere per rinvigorirla.

Si è discusso quindi del miglioramento del funzionamento del mercato, dei servizi pubblici, del welfare, delle infrastrutture, dell’economia digitale, della distribuzione del reddito, ma non si è affrontato il problema, diventato prioritario nella Cina degli ultimi tempi, del ruolo delle imprese private, negli ultimi tempi meno importanti, anche se la loro centralità era stata il punto fondamentale del discorso di insediamento del Presidente Xi Jinping del 2013.

Questo obiettivo, messo progressivamente in secondo piano, sembrava invece diventare di nuovo prioritario, anche in conseguenza delle diffuse preoccupazioni esistenti nel mondo degli affari e dell’aumento della disoccupazione giovanile, fenomeno assolutamente sconosciuto nell’economia cinese degli ultimi decenni.

Il vero punto centrale delle decisioni economiche ha riguardato invece l’obiettivo di concentrare ogni futura energia nel raggiungimento, ad ogni costo, del primato cinese nei campi della scienza e della tecnologia. Questo obiettivo è dominante in ogni pagina del rapporto, sia che riguardi le innovazioni del sistema scolastico, le riforme della pubblica amministrazione o qualsiasi decisione da intraprendere.

Scienza e tecnologia riempiono ogni pagina e indicano il sentiero di marcia in ogni campo, da quello agricolo a quello spaziale. Sul contendere il primato tecnologico e scientifico agli Stati Uniti (che pure non vengono mai menzionati) si gioca il futuro della Cina.

La parte più inattesa delle conclusioni del summit riguarda però alcune priorità politiche da adottare per raggiungere quest’obiettivo.
Non desta certamente sorpresa l’importanza attribuita al rafforzamento della leadership del Partito comunista, ritenuto il motore fondamentale della modernizzazione del paese. Una modernizzazione che deve naturalmente essere attuata “con caratteristiche cinesi”.

Mi ha invece molto colpito che l’elenco di queste caratteristiche venga esteso in campi che, pur facendo parte di una prassi politica consolidata, non sono in genere trattati in modo esplicito in un summit che solitamente si concentra su temi di interesse strettamente politico o economico.

Mi riferisco particolarmente alle affermazioni riguardo alla politica da adottare nei confronti delle confessioni religiose e del mondo culturale.

Nel sottolineare la necessità di rafforzare il senso di comunità e di coesione della nazione cinese, viene esplicitamente sottolineato l’obiettivo di “promuovere sistematicamente la ‘sinificazione’ della religione in Cina e il rafforzamento dello stato di diritto socialista nel governo degli affari religiosi”. Riguardo al rapporto con la cultura viene espresso l’obiettivo di “intensificare il meccanismo di leadership politica nei confronti degli intellettuali non appartenenti al Partito e dei nuovi strati sociali”. Accanto a queste così esplicite affermazioni di un crescente controllo sulla società, viene auspicata una “stretta e limpida relazione fra il governo e il mondo degli affari, in modo da promuovere un sano sviluppo della parte di economia che agisce al di fuori del sistema pubblico e delle persone che in esso operano.”

Non si tratta certo di posizioni nuove, ma ripetute in quest’occasione e in questa forma sottolineano come stiamo ormai pienamente vivendo in una fase storica in cui le divergenze fra Cina e Occidente crescono in ogni campo. Agli scontri militari, politici, economici e commerciali, si sommano, in modo quasi ovvio e naturale, crescenti tensioni nel campo scientifico e maggiori chiusure nel campo religioso e culturale.

E’ difficile che si possa porre fine a questa sfida globale in un prevedibile periodo di tempo. Ci si augura almeno che i massimi responsabili della politica delle due grandi potenze possano dialogare per evitare lo scontro diretto, come fecero John Kennedy e Nikita Krusciov negli anni più bui della guerra fredda fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica.

Italia 24: boh?!

 Dopo 30 anni d'America non e' facile reintegrarsi in questa Italia del 2024 a parte un piccolo gruppo di amici che ti sostengono con un affetto introvabile tra i parenti piu' stretti.

Qualcuno mi ha suggerito di calarmi dentro gli spot pubblicitari, specialmente quelli meridiani perché possono dare una vera connotazione di che cosa sono i tuoi connazionali adesso.

Così vieni a sapere che c'è un prodotto per la vaginite batterica, inconveniente che chiaramente si allinea, povere donne, con le decine di altri malanni di trasmissione sessuale amplificati dal periodo estivo.

Ma soprattutto dalla pubblicità emerge che l'inconveniente sintomatico della popolazione italiana è la stitichezza. E le immagini degli spot dopo l'evacuazione, mostrano che gli italiani possono raggiungere la felicità assoluta usando un lassativo.

Ogni tanto sopraggiunge un cinquantenne in mutande affetto da gocciolamento prostatico.

Ti invita a cambiare mutande e a comprare quelle che sono l'inizio della via al pannolone definitivo.

Almeno a giudicare dagli spot i maschi italiani sono definitivamente assoldati nei lavori domestici casalinghi.

Cosa che negli USA fa parte da sempre della cultura generalizzata  ma che in Italia si e' modificata recentemente

Poi c'è l'ironia involontaria come in quello spot che celebra un olio extravergine e mostra una signora molto in là con gli anni che addenta una consistente fetta di pane casareccio senza alcun problema dentario.

Resta infine il continuo cicaleccio politico da cui e' difficile capire se si vive in un contesto messo a rischio dai fascisti che  ribollono o si tratta solo delle solite accuse di una sinistra che non sa trovare una sua dimensione e un programma per rilanciate la Nazione.

Italia 24: boh?
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Franco Bernazzani   Roma

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Alessandro Petti

Sun, Aug 11, 1:32 PM (3 days ago)
to me

Ma ti sei perso, amico mio carissimo, almeno uno spot tra quelli indimenticabili. Quello della Meloni, ospite pochi giorni fa in Cina, intenta a mediare tra Europa, Cina, Russia e resto del mondo per portarvi finalmente la pace! Ma di lei tra un po’(non appena messer Calenda e messer Renzi perderanno un po’ di Egotismo e si convinceranno, ove da soli, della loro irrilevanza), di lei dicevo non rimarrà che un solo ricordo: quello della sua “messa in piega a ricciolo” (e di un cognato col parrucchino sotto il Fez).

Sandro P.  Roma

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iCaro  Oscar!

Condivido a pieno le tue  riflessioni !

A me  sembra il  " valzer della pochezza"-

Buon Ferragosto !

Un  abbraccio !

Andrea Mazzoni




La vera svolta dell’agenda Ursula e il voto contro che isola l’Italia



La vera svolta dell’agenda Ursula

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero 

Dopo le elezioni europee sono arrivate le nomine. Poche sorprese hanno riservato le elezioni e poche sorprese le nomine. Addirittura una passeggiata è stata la riconferma della popolare maltese Roberta Metsola che, secondo una tradizione fino ad ora sempre rispettata, sarà sostituita a metà Legislatura da un esponente socialista.

Ovviamente meno corale, ma più favorevole rispetto a ogni previsione, è stato il voto di approvazione della Presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Il voto del Parlamento è stato preparato da un discorso certamente ecumenico, perché promette tutto a tutti e pone molti punti interrogativi sul reperimento delle risorse finanziarie per raggiungere questi obiettivi, ma con alcune proposte sorprendenti perché più aperte e politicamente più abili di quanto molti avevano previsto.

Prima di tutto viene solennemente inserita negli obiettivi programmatici la riforma dei trattati. Questo tocca direttamente il funzionamento delle istituzioni europee. L’impegno a prendere in esame “nuovi formati e nuovi processi decisionali” apre finalmente la possibilità di un necessario passaggio dall’unanimità al voto a maggioranza, condizione perché l’Unione possa prendere decisioni importanti.

Vedremo naturalmente se questa rivoluzione avrà luogo, ma è significativo che essa sia stata posta come condizione per ogni futuro allargamento dell’Unione. E’ bene ricordare, a questo proposito, che lo stesso impegno, anche se non con la stessa solennità, era stato preso quando, vent’anni fa, dieci nuovi paesi erano entrati a fare parte dell’Unione.

Ursula von der Leyen ha elencato anche la direzione verso cui la nuova capacità decisionale dovrebbe rivolgersi. Non solo verso i grandi capitoli della politica ambientale, della difesa, della sicurezza, dell’energia, dello sviluppo industriale e tecnologico, delle migrazioni e degli squilibri sociali e territoriali, ma anche verso decisioni specifiche, alcune delle quali particolarmente interessanti per il nostro paese. In primo luogo è doveroso citare la proposta di un Commissario per il Mediterraneo, accentuando un’attenzione nei confronti della frontiera sud dell’Europa che, fino ad ora, non è stata certamente prioritaria. Bisogna naturalmente essere attenti alle deleghe specifiche di questo nuovo incarico, che può significare ben poco, ma che può anche inaugurare una nuova politica di cooperazione economica, scientifica, culturale e di inclusione sociale fra la sponda nord e la sponda sud del Mediterraneo: prospettiva particolarmente importante per il nostro Mezzogiorno.

Altrettanto interessante è il richiamo specifico alla proposta di Enrico Letta di dare vita a un’Unione Europea dei Risparmi e degli Investimenti, con l’obiettivo di indirizzare verso lo sviluppo europeo le centinaia di miliardi di nostri risparmi che ora si dirigono principalmente verso Wall Street.

Significativo nei confronti di un maggiore accento sulle politiche sociali è inoltre lo specifico riferimento ad una nuova politica della casa, resa necessaria dalla frammentazione dei nuclei famigliari, dalla mobilità sociale e dai fenomeni migratori generati dalle nuove esigenze dell’economia.

Sull’aspetto puramente politico della votazione, ha destato grande sorpresa il voto contrario dei parlamentari di Fratelli d’Italia. Data la frammentazione avvenuta nei gruppi di destra si pensava infatti che la nostra Presidente del Consiglio avrebbe giocato un ruolo di ponte fra loro e la maggioranza Ursula. Ha invece prevalso il richiamo di una foresta che aveva più volte espresso il rifiuto verso qualsiasi alleanza estesa alla sinistra, anche se guidata da un leader appartenente a un partito conservatore. Non penso che questa decisione, che avrà grandi conseguenze anche nella nostra politica interna, impedirà all’Italia di avere un Commissario politicamente importante nella nuova Commissione Europea. L’Italia è un grande paese e questo è stato sempre riconosciuto in tutte le nomine dei Commissari in tempi remoti e recenti. Saranno invece molto negative le conseguenze sull’efficacia della presenza italiana nella vita futura delle istituzioni europee.

Chi conosce il modo di operare non solo della Commissione, ma anche del Parlamento e del Consiglio Europeo, è in grado di capire quanto sia importante appartenere alla coalizione che quotidianamente collabora per elaborare e mettere in pratica le decisioni politiche. Proprio per la complessa composizione degli organismi europei, la direzione di marcia e le scelte importanti vengono sempre prese nell’ambito dei gruppi politici che, anche se con frequenti differenze, condividono lo stesso cammino. E’ la prima volta, nella storia europea, che l’Italia si distacca da coloro che decideranno la politica europea. Il prezzo di quest’isolamento sarà quindi molto elevato in futuro, a meno che un opportuno ripensamento non porti a modificare comportamenti estranei ai nostri interessi e alle nostre tradizioni. Non sarà certo facile perché il voto di sfiducia è come il primo amore, non si scorda mai. Mi sembra inoltre che Ursula von der Leyen abbia proprio la memoria lunga.

Le risorse del PNRR per garantire ai giovani un salario decente



La risposta necessaria ai salari bassi

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 13 luglio 2024

Mentre nel quadro politico di questo mondo turbolento abbiamo ogni giorno novità ed eventi imprevisti, nel campo economico di novità ne abbiamo ben poche. Sembra che tutto proceda nella normalità. La crescita del PIL mondiale sarà anche quest’anno intorno al 3%, cioè nello stesso ordine dell’anno scorso, con una media dell’1,5% nei paesi industrializzati e del 3,9% nei paesi emergenti. Anche tra i grandi protagonisti dell’economia globale i rapporti di forza corrono sui binari tradizionali. La Cina crescerà poco più del 5%, gli Stati Uniti metà della Cina e l’Unione Europea metà degli Stati Uniti. Perfino la Russia, pur impegnata in una sciagurata guerra, avrà un tasso di crescita positivo.

In parallelo continua la diminuzione dell’inflazione, anche se con un ritmo più rapido in Europa rispetto agli Stati Uniti. Per non turbare questo pigro ma tranquillo andamento dell’economia, la Banca Centrale Europea ha abbassato di un modesto 0,25% il tasso di interesse e probabilmente si limiterà a replicare questa prudente decisione anche nel prossimo autunno.

In questo quadro l’Italia, recuperato dopo il Covid una parte del cammino perduto nel decennio precedente, crescerà quest’anno intorno a 0,9%. Con questo risultato, certamente modesto, ma leggermente migliore rispetto alle previsioni, abbiamo superato del 3,6% il nostro PIL del 2019. Tuttavia, unico tra i grandi paesi europei, non abbiamo ancora raggiunto il livello del lontano 2008.

Negli ultimi anni l’economia italiana presenta caratteristiche strutturali assai diverse da quelle degli altri paesi. La grande anomalia riguarda il mercato del lavoro. Da un lato infatti abbiamo la buona notizia che l’occupazione è notevolmente aumentata nell’ultimo anno, ma la crescita dell’occupazione è superiore a quella del PIL. Il che significa che la produttività del sistema economico non è in aumento ma in diminuzione e che la nuova occupazione si concentra soprattutto in settori poveri, con un basso livello di produttività.

Questo in conseguenza del fatto che, come ha recentemente osservato il Governatore della Banca d’Italia, la nuova occupazione si è soprattutto concentrata sui servizi di basso valore aggiunto, con una debolezza del settore manifatturiero, caratterizzato da un livello di produttività più elevato.

A questo si aggiunge che il numero dei nuovi occupati si accompagna alla diminuzione delle ore lavorate pro-capite. Ancora più significativa risulta l’osservazione del Governatore riguardo alla media dei salari italiani che, nonostante qualche recente aumento, risultano ancora ad un livello così basso da rendere sostanzialmente necessaria la loro rivalutazione. Un aumento che, almeno entro certi limiti, è oggi possibile senza il pericolo di tensioni inflazionistiche. La drammaticità del problema salariale italiano è confermata dai dati dell’OCSE, secondo i quali i salari reali italiani sono diminuiti del 6,9% rispetto al 2019. Il che purtroppo non ci deve stupire, dato che, solo nel biennio 2022-2023 i prezzi al consumo sono aumentati del 13,8%.

Questi semplici numeri spiegano il fatto, apparentemente paradossale, che all’aumento dell’occupazione si accompagna la crescita della povertà assoluta in tutte le aree del paese. In troppi casi, anche per l’aumento del costo degli affitti, il salario non è infatti più sufficiente per fare uscire la famiglia dalla povertà.

Il problema salariale è quindi prioritario, urgente e, nello stesso tempo, impossibile da affrontare con una singola misura. Occorre un progetto di politica economica organico e complessivo.

I dati esposti in precedenza ci obbligano a prendere prima di tutto in considerazione il controverso capitolo del salario minimo.

Si tratta di un traguardo raggiunto dalla quasi totalità dei paesi europei e per noi necessario. Dobbiamo essere però consapevoli che, da solo, non è in grado di riportare al livello dovuto il mondo del lavoro italiano.

Abbiamo infatti un tasso di occupazione più basso della media europea, una quota troppo elevata di giovani fuori dal sistema di lavoro e di istruzione (16,1% contro l’11,2%), una quota fuori misura di part-time involontario (10,2% contro il 3,6%) e un insufficiente grado di istruzione e preparazione professionale.

Per rendere il tutto più assurdo, questi comportamenti si accompagnano ad una crescente emigrazione di lavoratori ad alta e altissima specializzazione, dal settore industriale a quello sanitario, dalla ricerca scientifica all’insegnamento.

Un’emigrazione che viene alimentata dalle più elevate remunerazioni dei paesi di accoglienza e a cui si può solo porre riparo nel tempo elevando il livello di produttività e di efficienza del nostro paese.

Non quindi bonus o sussidi, ma una mobilitazione nazionale di lungo periodo per spingere la società e il sistema produttivo italiano verso quella maggiore efficienza necessaria per invertire la drammatica perdita del potere d’acquisto dei nostri salari.

Si sarebbe potuto dare inizio al cambiamento di rotta indirizzando verso questa direzione una quota rilevante delle risorse del PNRR.

La realtà politica e sociale del paese ci sta invece spingendo ancora una volta verso una disordinata risposta alle mille pur legittime richieste.

Dobbiamo invece essere consapevoli che solo una radicale inversione di rotta, che vada ben oltre le contrattazioni salariali, potrà, dopo anni di severo impegno, garantire un salario almeno decente alle nuove generazioni. La via che stiamo percorrendo può portare solo ad un’ulteriore nostra emarginazione.

 

Il Pd eviti la tentazione del partito unico. Macron apprendista stregone

“Il Pd eviti la tentazione del partito unico Parigi, ora c’è confusione”
L’ex premier: Macron apprendista stregone, complicato fare un governo

Intervista di Paolo Valentino a Romano Prodi su Il Corriere della Sera del 11 luglio 2024

“La particolarità della situazione italiana è che il Pd ha un ruolo speciale rispetto agli altri alleati, avendo più del doppio dei consensi del secondo partito della possibile alleanza. Però deve capire che una coalizione ha le sue regole e che non ci deve essere la tentazione del partito unico o dominante. Si tratta di una consapevole assunzione di responsabilità. Certo non ci può essere spazio per radicalismi e ali estreme”. In questa intervista esclusiva al Corriere , Romano Prodi ragiona a tutto campo sull’esito delle elezioni in Francia, la sinistra in Italia, il futuro dell’Europa e il ruolo di Giorgia Meloni nei prossimi assetti dell’Unione.

Professore, partiamo dal risultato francese. Qual è la sua lettura?

“In primo luogo, bisogna leggerlo in francese. È un tipico risultato che viene dalla legge elettorale e da tutto il retaggio della storia politica della Francia. Però una cosa molto semplice la dice: quando c’è una proposta estrema, pro o contro l’Europa, pro o contro l’estrema destra, la maggioranza vota per l’Europa e contro l’estrema destra. Da questo punto di vista Macron ha vinto la sua scommessa, ma io continuo a pensare che avrebbe fatto meglio a non farla. È stato un apprendista stregone, il secondo round ha di molto ridimensionato il suo ruolo”.

Detto questo, è un voto che ci fa tirare un sospiro di sollievo in Europa. È d’accordo?

“Io sono contentissimo del risultato, ora però bisogna vedere che governo ne verrà fuori. Quale programma può mettere insieme questa nuova Francia? Il programma precedente, quello di Macron, non mi soddisfaceva ma lo capivo. Ora c’è grande confusione. Le Monde ha proposto un gioco ai lettori, costruire la loro maggioranza preferita, un puzzle quasi impossibile.

Mi domando se la saggezza che ha portato a una grande coalizione repubblicana contro l’estrema destra, sia in grado di diventare operativa. Se rimaniamo ai veti, non si va lontano. Il discorso di Mélenchon la sera delle elezioni mi ha spaventato, non c’era una parola di appeasement , di pace, di accordo, nessuna mano tesa verso Macron i cui voti sono indispensabili. Ecco, qualcosa deve cambiare in Francia. Quindi bella vittoria, ma molto complicato tradurla in pratica. Il messaggio importantissimo è che Le Pen non è invincibile“.

Si discute in questi giorni se dal voto in Francia venga una lezione per la sinistra italiana. È così?

 

“No. Non dobbiamo copiare i modelli altrui. In Italia abbiamo un altro cammino da percorrere. C’è una forza riformista notevole e io vorrei che questo riformismo diventasse abbastanza grande da avere un ruolo di governo. Bisogna allargare, avere grandi ali e soprattutto un programma riformista condiviso”.

E quali sono i suoi cardini?

“Su casa e sanità esiste una naturale identità di vedute, su scuola e fisco si può trovare una linea comune perché la direzione è la stessa. Il Paese è spaccato per quanto riguarda la distribuzione del reddito, ormai intollerabile. Perfino il governatore della Banca d’Italia dice che dobbiamo aumentare i salari perché così le famiglie non reggono. Siamo al di là di ogni immaginazione. Credo sia possibile un lavoro serio, interpellando anche la base: non esistono più le discussioni nei partiti e invece bisogna ripristinarle.

Possiamo anche pensare alle primarie, ma io vorrei prima un grande dialogo in Rete sui bisogni fondamentali del Paese. Se oggi rifacessi il mio viaggio in pullman, alle fermate non si presenterebbe nessuno o quasi. Oggi il bus è la Rete. Parliamo con i cittadini e facciamoli esprimere sulle cose fondamentali. Andiamo avanti come quando abbiamo costruito un’alleanza in condizioni che sembravano impossibili, quando eravamo molto più frammentati di adesso. Per favore, non costruiamo un’alleanza di governo sui vertici. Basta. Non servirebbe a nulla. Facciamola su un programma condiviso, che sostituisca i bonus con la politica giusta”.

Condiviso anche sulla politica estera, dove invece la sinistra registra profonde divisioni, a cominciare dall’Ucraina?

“Le divisioni della sinistra sulla politica estera, dall’Ucraina all’Europa, sono infinitamente inferiori a quelle della destra che ci governa. Che in una coalizione ci siano differenze anche importanti, è normale. Ma nella maggioranza attuale ci sono addirittura linee opposte. Sull’Ucraina mi pare che le differenze a sinistra siano più componibili di quella a destra: sul diritto all’indipendenza e alla sovranità di Kiev il centrosinistra è d’accordo”.

In Europa è in corso la partita delle nomine, si sta consolidando il cordone sanitario verso l’estrema destra. È la strada giusta? E come giudica l’azione di Giorgia Meloni?

“La maggioranza si fa con le forze che ci sono. Le elezioni francesi paradossalmente rendono il pacchetto di nomine proposto – von der Leyen, Costa, Kallas – il più realistico possibile. Poi nel voto segreto ci possono essere dei franchi tiratori. Vede, i franchi tiratori si dividono in due tipi. Ci sono quelli che hanno in antipatia il candidato e questi sono inconvincibili…”.

Parla per esperienza personale?

“Certo. Io conoscevo benissimo la faccia di chi non mi avrebbe mai votato nell’elezione per la presidenza della Repubblica. Ecco, questo tipo di franchi tiratori non voterà mai la von der Leyen. E poi ci sono i franchi tiratori che pensano a soluzioni alternative. Questi dovrebbero diminuire dopo le elezioni in Francia. In linea teorica, le candidature proposte dovrebbero essere votate dalla maggioranza che le ha espresse. Se ciò avviene, Giorgia Meloni che si è astenuta su von der Leyen, è fuori gioco. La sua scommessa potrebbe darle più forza solo se il suo voto fosse necessario”.

Fuori gioco significa che l’Italia peserebbe meno nella divisione degli incarichi fra i commissari?

“No. Che l’Italia abbia un commissario di peso è ovvio. Lo ha sempre avuto. Poi sarà Meloni a spingere per Economia, Concorrenza, Bilancio o Agricoltura. Su questo piano non vedo rischi di emarginazione. Vedo invece il rischio che l’Italia non si segga ai tavoli delle decisioni informali insieme a Francia e Germania, fatto indispensabile perché quelli sono sempre stati i due motori trainanti”.

Anche se in questa fase girano a vuoto.

“Proprio per questo sarebbe ancora più utile un’Italia protagonista in Europa. Ma non si può fare da collante astenendosi. È come dire facite vobis . Invece una politica attiva significa entrare nello spirito europeo. Complicato per la nostra destra! Per questo motivo la nostra premier si astiene“.

Nel frattempo, abbiamo un problema Orbán in Europa.

“Quando si fanno regole folli, si paga il fio. La regola dell’unanimità e la presidenza a rotazione appartengono al postmoderno. Oggi ne paghiamo le conseguenze: quello è il presidente e fa gli affari suoi. È una cosa orrenda, non è democrazia. Orbán usa il ruolo e il potere che gli abbiamo dato per andare in giro a dire le cose che ha sempre detto e che sono in totale rottura con l’Europa. Ma la colpa è nostra. Fino a quando non la finiremo con l’unanimità, avremo sempre degli Orbán in casa, che approfittano della nostra follia. Inutile girarci attorno: voto a maggioranza, difesa comune, atteggiamento francese sull’arma nucleare e seggio all’Onu, aumento del bilancio europeo, completamento del mercato unico, queste sono le cose che dobbiamo affrontare. Ma ci rendiamo conto che discutiamo sul 2% delle spese per la difesa, senza realizzare un’industria e un esercito comuni?”.

Lei condivide il pessimismo di Joschka Fischer, secondo il quale “se perdiamo questa Europa, perderemo noi stessi”?

“Indietro non si torna, soprattutto dopo il fallimento della Brexit. Con l’Europa di adesso abbiamo tanti vantaggi, da Schengen al Pnrr, ma rimaniamo assolutamente irrilevanti nella grande politica mondiale. È un patto fra amici, che ci aiuta molto, ricco di accordi, ma che non riguarda le grandi decisioni di politica estera, fisco, difesa. Faremo il salto in avanti? Penso di sì, il problema è farlo prima che lo schiaccianoci americano e cinese ci stritoli del tutto. Ogni giorno sono sempre più Usa e Cina a prendere le decisioni. Oggi, l’unanimità ci blocca. Ci dovremo arrivare al voto a maggioranza, magari a cerchi concentrici, come si è fatto con l’euro. Certo qui urtiamo contro i muri della sovranità. Ma non sono pessimista. La scelta è tra essere europei eterodipendenti o europei con un minimo di autonomia strategica”.

Romano Prodi, classe 1939, laurea in Legge, fondatore e leader dell’Ulivo, è stato presidente del Consiglio dal ‘96 al ‘98 e dal 2006 al 2008 e presidente della Commissione europea dal ‘99 al 2004. Già docente di Economia e Politica industriale all’Università di Bologna, è stato ministro dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato nell’Andreotti IV, presidente dell’Iri dall’82 all’89 e dal ’93 al ’94. Nel 2008 è stato nominato presidente del gruppo di lavoro Onu-Unione Africana sulle missioni di peacekeeping in Africa e nel 2012 Inviato speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite per il Sahel.

A che serve il Rotary?

Appena nominato presidente del Rotary Club Cassia Romana  (1989) mi sono chiesto come sarei potuto passare alla storia per il mio impegno nell'amministrazione del club;

 Insieme al caro amico Claudio Salustri fondatore del club, abbiamo cominciato a 'spazzolare' l'area definita Cassia Romana per valutare quali ne fossero le caratteristiche.

Ed abbiamo scoperto che si trattava di una zona in cima alle classifiche nazionali per il numero di incidenti mortali automobilistici, soprattutto nei fine settimana e concentrati negli ultimi chilometri della  Superstrada Cassia bis che, oltretutto non potrete crederci, non risultava inserita nell'elenco delle strade statali.

Gli ultimi chilometri della Cassia bis erano privi dello spartitraffico New Jersey che invece era stato allestito nella maggioranza del percorso di questa strada statale. 

Una attenta indagine ci ha fatto scoprire che i 6 miliardi di lire previsti per il completamento dei lavori su questa strada stavano per essere dislocati su un altro capitolo di spesa. Ovviamente per insistenze politiche. locali. 

A quel punto ho preso in affitto un cinema teatro sulla Cassia. 

L'ho riempito di politici a livello nazionale e locale, Don Quirino parroco, media a stampa e elettronici , ovviamente il direttore regionale. dell'Anas.

Do[o qualche giorno misteriosamente i 6 miliardi di lire sono riapparsi con l'impegno del direttore Anas di completare i lavori per la costruzione degli ultimi chilometri.di guard rail.

Mi rendo conto che a raccontare certe cose si rischia di essere definiti "mosche cocchiere".

È un rischio che corriamo volentieri pensando che forse questa nostra iniziativa sarà riuscita a salvare qualche vita di coloro che allegramente volevano spendere un fine settimana in sicurezza.

Oscar

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Erminia Scarcella

4:10 PM (59 minutes ago)
to me
Eccellente!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Oscar sei bravo come al solito 
hai una mente che e’ non comune!
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Alessandro Butticé

5:03 PM (7 minutes ago)
to me
Grande Oscar!





Meloni porta l’Italia ad isolarsi. A Schlein serve un programma


Prodi: «Meloni porta all’isolamento, una tragedia per l’Italia»


Intervista di Marco Damilano ed Emiliano Fittipaldi a Romano Prodi su 29 del 29 giugno 2024

L’ex premier e presidente della Commissione commenta preoccupato l’esito del recente Consiglio europeo: «Il voto delle europee e delle città non è la rivoluzione, ma segna un cambiamento psicologico importante». Un suggerimento per Schlein? «È il momento di scrivere un programma di governo partendo dal paese»

“Occorre far vivere la politica sia in Italia che in Europa. Se non c’è una svolta politica si continua a vivacchiare. La politica estera e la difesa, le cooperazioni rafforzate, la fine dell’unanimità. Non ne ha parlato nessuno in queste giornate. In Italia dobbiamo fare la stessa cosa. Ricostruire dal basso la politica. Il voto delle elezioni europee e delle città aiuta perché la gente ora ci sta, è rincuorata dal risultato elettorale, ha desiderio di essere interrogata, mobilitata. Questo voto non è la rivoluzione, ma segna un cambiamento psicologico importante. È il momento di scrivere un programma di governo partendo dal Paese”.

All’indomani del vertice europeo sulle nomine dell’Unione, con il governo di Giorgia Meloni che si mette fuori dall’accordo, insieme soltanto all’Ungheria di Viktor Orban, Romano Prodi parla a tutto campo di Europa e di elezioni americane, ma anche di autonomia differenziata e di premierato. Con un’alternativa di governo ancora tutta da costruire.

Partiamo da un giudizio di merito. Von der Leyen, Costa, Kallas. Al di là dei nomi, il pacchetto dei top jobs uscito dal vertice di Bruxelles rappresenta la guida forte che serve all’Europa?

“Sulla carta sta uscendo un’Europa più debole. Non mi riferisco alle nomine, ma ai punti interrogativi che nascono rispetto alla leadership franco tedesca che ha sempre guidato l’Europa e allo sbandamento italiano che di fronte alle nuove incertezze sta dimostrando di non sapere dove andare. Una politica di inserimento preventivo poteva far giocare al nostro Paese un ruolo forte come in passato, ma questa politica non c’è stata perché Meloni non aveva deciso da che parte stare: se essere Presidente del Consiglio italiano o leader dell’estrema destra“.

La premier Meloni ha votato contro due nomine su tre, astenendosi sulla presidente della Commissione, denunciando una conventio ad excludendum nei confronti dell’Italia

“C’è stata una excludendum senza conventio. Una auto-excludendum. Quando la tradizionale maggioranza si scolla, o ti inserisci per creare un nuovo equilibrio oppure, se ti escludi da sola, devi rassegnarti che qualche collante si ristabilisca”.

In realtà Meloni ha provato per più di un anno a costruire l’asse anche personale con Ursula von der Leyen.

“Si, ma l’asse si è spezzato a Madrid, quando Meloni ha partecipato al raduno di Vox. Mi ha sorpreso, ma evidentemente la premier contava su una vittoria massiccia della destra estrema. Questo non è avvenuto. La verità è che nel Parlamento europeo l’aumento del numero dei parlamentari delle destre è stato minimo, inferiore a ogni previsione. Esaminando il voto si vede che addirittura i paesi di più recente adesione hanno votato per stare in Europa. Sono stati i vecchi membri, i paesi fondatori, Francia, Germania e Italia, che hanno manifestato debolezza. Pur con tutti i loro problemi, i nuovi hanno ancora fresco il valore dell’Europa. La stanchezza è nei paesi fondatori che hanno perso la memoria storica che faceva dire a Helmut Kohl: “io voglio l’euro perché mio fratello è morto in guerra“. In Polonia Donald Tusk ha vinto con l’europeismo che sembrava un punto debole. Per me è una soddisfazione anche personale. La tragedia dell’Ucraina ha dimostrato quanto fosse importante l’allargamento a Est dell’Unione che ho fortemente voluto da presidente della Commissione, bombardato dalle critiche. Ora anche il voto europeo conferma che quella intuizione era giusta”.

Cosa rischia ora l’Italia con questo isolamento?

“Di essere isolata: una tragedia per chiunque faccia politica”.

Per mesi si è detto che Meloni puntava a essere la nuova Angela Merkel. Cosa resta di questo progetto?

“Abbiamo visto, anche nell’inchiesta di Fanpage, che Fratelli d’Italia vive nella memoria storica del partito e non può perciò perdere l’ala furiosa. Si presumeva che i Fratelli diventassero democristiani, ma le ultime elezioni hanno dimostrato che il partito popolare ha eretto, almeno per ora, una barriera al suo lato destro”.

Siamo alla vigilia del primo turno delle elezioni legislative francesi. L’azzardo del presidente Emmanuel Macron sta riuscendo?

“Vedremo se vince o se perde. Ma in ogni caso è stato un “errore di sbaglio”. È stato il gesto di chi dice: “dopo di me il diluvio”. Con l’Assemblea precedente c’erano maggiori possibilità di riaggiustare, di riarmonizzare il tandem franco-tedesco. Se poi vincerà Marine Le Pen, ça va sans dire…”.

C’è chi dice che Macron voglia veder fallire il Rassemblement nella prova del governo, per poi vincere le presidenziali del 2027.

“Alcuni politologi francesi la pensano così, ma non considerano che quando poi si arriva al potere, molti sono i meccanismi utilizzabili per vincere anche le elezioni presidenziali, con le robuste leve che consente il sistema istituzionale francese. È pur vero che da qui al 2027 le cose possono cambiare anche tra chi intende costruire un’alternativa alle destre, così in Francia come in Italia”.

Sull’Italia pesa una procedura europea di infrazione per il debito pubblico. Fanno 32 miliardi di risorse aggiuntive da trovare nella prossima legge di bilancio. Nessuno ne parla in questi giorni. Che cosa rischiamo?

“Il rischio è altissimo. Se leggiamo le proposte di politica economica il disastro diventa una certezza: si va dritti verso l’infrazione. L’attuale ministro dell’Economia poi si adatta alle circostanze: Giorgetti è leghista a Roma e legittimista a Bruxelles, ma ha la fortuna di abitare a metà strada, davanti al bellissimo lago di Varese. E se il problema è che il governo rischia una brutta figura, mi viene in mente che quando ero giovanissimo ministro dell’Industria avevo un sottosegretario democristiano di provincia che mi diceva: “se c’è da fare una brutta figura mandi me, a me basta che nella mia città vedano sui giornali che sto facendo qualcosa di importante””.

Che ruolo sta giocando il presidente della Repubblica sulla partita europea?

“Sta difendendo la Patria, con grande saggezza”.

Com’è lo stato di salute del governo Meloni?

“È sempre stato cattivo, ma finora l’antibiotico Meloni ha sempre funzionato. È una coalizione con un comando accentrato, qualsiasi rottura porterebbe i due alleati al disastro, quindi la maggioranza è forte e al contempo debole, com’era all’inizio”.

Però alle elezioni europee il partito di Meloni è arrivato quasi al trenta per cento.

“Gli italiani hanno semplificato i due schieramenti. Le coalizioni di oggi sostituiscono la sfida tra i partiti che c’era all’inizio della storia repubblicana, tra democristiani e comunisti, come in Germania quello tra democristiani e socialisti”.

Il bipolarismo Meloni-Schlein è paragonabile a quello Berlusconi-Prodi?

“Oggi il ruolo delle due contendenti in maggioranza e all’opposizione è semplificato. Meloni e Schlein hanno vinto bene e non hanno distrutto le alleanze. Questo è un vantaggio, ma si deve fare attenzione. Bisogna vedere se la semplificazione induce qualcuno alla disperazione. Quando si vede il proprio partito diminuire, si possono trovare ovunque ragioni per la rottura: nell’Antico e nel Nuovo Testamento, in Machiavelli, ovunque. Non penso solo al campo largo. La terminologia del campo largo è stato utilizzata solo per la coalizione di centro sinistra, ma sono tutti e due campi larghi, o stretti. I due campi sono comunque simmetrici, e le mie osservazioni riguardano entrambe le coalizioni, di maggioranza e di opposizione”.

Le opposizioni si sono riunite per la prima volta in piazza Santi Apostoli, dove si festeggiarono le vittorie dell’Ulivo e dell’Unione…

“Sono luoghi che mi ricordano l’ansia di quelle notti davanti ai risultati che arrivavano. Poi però si scendeva giù perché si era vinto. Mi auguro che in futuro avvenga altrettanto”.

La prima battaglia è quella sull’autonomia differenziata. Meloni dice: è stato il centrosinistra ad aver aperto la strada con il cambio del titolo V della Costituzione.

È una riforma su cui ho sempre avuto riserve, non ha aiutato il bilanciamento territoriale. Ma certo non ha instaurato l’anarchia che questa legge provocherebbe. Abbiamo già uno Stato con poteri regionali sbilanciati, servirebbe ridiscuterli con proposte serie. Invece rischiamo di avere regioni che si mettono singolarmente d’accordo con il governo e fanno la diversità regionale a seconda delle convenienze di partito e della ricchezza della regione. Come dimostra la reazione del Mezzogiorno, che va ben oltre i singoli partiti. Così come il favore del Settentrione”.

Il referendum abrogativo è una sfida con possibilità di vittoria, con il quorum del 50 per cento dei votanti da superare?

“È una sfida rischiosa, ma ci sono sfide che devono essere fatte perché giuste. Sul quorum mancato ho una certa esperienza, quando per pochi voti non scattò il referendum sulla legge elettorale che avrebbe cambiato molte cose. Portare a votare una maggioranza oggi è ancora più difficile e Meloni punterà su questo. Ma è un gioco democratico puntare sull’astensionismo? Non lo è. E dovrebbe essere attenta al suo elettorato meridionale, potrebbe essere una vittoria di Pirro”.

Il premierato: la destra afferma che era il primo punto del programma dell’Ulivo nel 1995.

“È una gran balla. Nel nostro programma c’era il rafforzamento della presidenza del Consiglio, indispensabile, con il potere di revoca dei ministri per fare una squadra efficiente. Ma non venivano assolutamente toccati il Parlamento e i poteri del Presidente della Repubblica. Ho sempre voluto una legge elettorale maggioritaria a doppio turno, la volevo allora, la vorrei oggi. Bisogna fare una legge elettorale alla francese, ma con il bilanciamento dei poteri all’italiana”.

Fratelli d’Italia vorrebbe eliminare il doppio turno anche dalla legge elettorale dei Comuni.

“Se c’è una cosa in cui il Paese è cambiato in meglio è il governo delle città. Prima dell’elezione dei sindaci avevamo una crisi nei comuni ogni sei mesi. Ma come? Prima ci lamentiamo dell’astensionismo e poi vogliamo comprimere il voto? Così trasformiamo l’Italia in una democrazia della minoranza”.

Dopo il voto europeo e i ballottaggi vittoriosi il Pd di Elly Schlein appare più forte. Vuol dire che l’alternativa alle destre è più vicina?

“Il voto delle elezioni europee e delle città aiuta perché la gente è rincuorata dal risultato elettorale. Il voto non è la rivoluzione, ma è un cambiamento psicologico importante. È il momento di scrivere un serio programma di governo, discusso nel Paese. Ricostruire la base. L’area democratica si fa moltiplicando la base per l’altezza, non solo con l’altezza, con i rapporti di vertice. Serve un pullman dell’Ulivo moderno, contemporaneo”.

Andiamo con i suggerimenti. Per la segretaria del Pd Schlein?

“Costruire il programma. Prendere le parole di cui discutono gli italiani nelle loro case, il lavoro, la sanità, la casa, la scuola… metterle a discussione con esperti, operatori, cittadini che discutono. Alla fine del dibattito su ogni singolo tema, la Segretaria ne discute in presenza nelle diverse città italiane. Giusto parlare di salario minimo e di sanità, bisogna farlo con migliaia e migliaia di persone. C’è bisogno di rianimare il dibattito politico. Così si vincono le elezioni”.

Per Giuseppe Conte? Nel 2022 il Pd sembrava destinato a morire, superato dal Movimento 5 Stelle.

“Ho detto a Conte, anche direttamente, che il Movimento 5 Stelle è nato da un’emozione, c’era allora il senso di una piramide che opprimeva e che andava rovesciata. Oggi c’è la guerra, la paura delle nuove generazioni, la gente non vuole più l’emozione, vuole essere rassicurata. L’Italia è il paese con le minori proteste di piazza. Il vaffa è finito, è durato anche troppo. I 5 Stelle hanno ancora un patrimonio, o fanno il loro programma oppure, adagio adagio, spariscono”.

Per Renzi e Calenda: possono ancora rappresentare qualcosa?

“Renzi si sente rappresentato solo da se stesso, il problema quindi non si pone. Calenda ha esercitato un ruolo interessante quando è stato ministro dello Sviluppo economico, questo è il posizionamento adatto lui, deve ritornare a fare quel Calenda, portare quella sensibilità e quella consapevolezza nel centrosinistra che ne ha bisogno. In una famiglia ci sono i fratelli maggiori e i fratelli minori. Io sono l’ottavo di nove fratelli, ho imparato a comportarmi da fratello minore. Poi sono cresciuto, ma ho capito la bellezza del gioco di famiglia, di squadra. Il realismo di un uomo intelligente come Calenda deve spingerlo a capire che quella è la strada in cui può trovare uno spazio ampio”.

La segretaria del Pd ha le carte in regola per candidarsi quando sarà il momento alla guida di una coalizione di governo?

“Schlein può vincere le elezioni, ma solo se rappresenta tutte le sensibilità. Non si vince senza interagire con tutti i pezzi del Paese. Così come è importante tener conto della presenza di una grande area cattolica riformista. Un paese complesso come l’Italia esige una flessibilità del comando. Il pluralismo è fatto di convivenza mediata, ragionata, discussa. La composizione della diversità è la caratteristica di una democrazia matura”.

Un punto dove finora è stata impossibile trovare una sintesi è il sì o il no al sostegno militare all’Ucraina.

“Non è una questione che riguarda solo la sinistra. La questione si sta aprendo ancor più a destra. Dopo l’aggressione russa, pesa la fatica della guerra. Sta cominciando la stanchezza. Le divisioni dell’Europa hanno impedito che l’unico protagonista che poteva fare la pace si mettesse al tavolo. Ci hanno provato la Turchia, l’Arabia Saudita, il Qatar, il Vaticano, nessuno ha ottenuto nulla. Si fa una conferenza di pace con la presenza di una sola parte. In queste circostanze, se fosse stata unita, l’unica che poteva ottenere qualcosa era l’Europa. Fino alle elezioni americane non si muoverà nulla. Il presidente Biden ha ora la priorità della pace in Israele. Blinken e Sullivan fanno la spola tra Washington e Tel Aviv, vanno a Kiev quando si sbagliano. Senza le costituency dei giovani universitari e della comunità ebraica, infatti, i democratici perderanno i sei stati in bilico”.

Se vince Trump sull’Ucraina cambia qualcosa?



“Sì, perché ha le mani libere. Biden non ha potuto farlo. Trump può fare qualsiasi cosa, è del tutto imprevedibile, ma comincia un capitolo da zero che avvantaggia sia lui che Putin, con l’Europa in mezzo che continuerà a non contare nulla. Ma arriverà il giorno in cui la Francia sarà costretta a fare il grande passo per costruire finalmente l’esercito europeo, portando a livello dell’Unione il suo diritto di veto al Consiglio di Sicurezza e l’arma nucleare!”.

Dopo il faccia a faccia televisivo con Trump, Biden dovrebbe ritirarsi?

“La sua debolezza è apparsa evidente. E quattro anni sono obiettivamente lunghi. La decisione è solo sua”.

Cosa pensa della notizia che Tony Blair sarà il primo autore pubblicato dalla nuova casa editrice intitolata a Silvio Berlusconi?

“Mi ha incuriosito che Marina Berlusconi abbia dato l’annuncio lo stesso giorno in cui Renzi è entrato nel board dell’istituto di Blair. Una bella cooperativa!”.