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Il direttore de La Stampa

Il mondo in balia di un idiota
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MARIO CALABRESI
Il mondo in balia di un idiota. Di un pastore battista a cui per 63 anni non aveva dato retta nessuno, tanto che nella sua Chiesa i fedeli erano poco più degli alunni di una classe elementare. La figlia di quest’uomo, che due mesi fa restò folgorato dalla proposta di un suo seguace di commemorare l’11 Settembre dando fuoco al Corano, sostiene che «è uscito di testa».

Insomma, parliamo di un matto di una cittadina della Florida profonda in cui sei obbligato a passare solo se devi andare in Georgia o in Alabama. Un matto capace però di tenere col fiato sospeso la Casa Bianca, la Nato, il Pentagono, l’Interpol, l’Onu, eserciti e polizie di mezzo mondo, organizzazioni umanitarie e di volontariato, chiese, moschee, sinagoghe e un sacco di turisti.

Come è possibile che questo oscuro reverendo in vena di provocazioni sia diventato un fenomeno planetario, anziché essere compatito dai suoi concittadini? La risposta investe in pieno il mondo dei mezzi di comunicazione che lo hanno trasformato in una star, che lo assediano da giorni con microfoni, telecamere, registratori, taccuini e che hanno piazzato intorno alla sua roulotte decine di antenne paraboliche. Per non farsi sfuggire nulla, per rilanciare al più presto ogni sillaba incendiaria e magari anche l’immagine dell’incendio finale, quel falò di libri sacri all’Islam che avrebbe l’immediato effetto di accendere un’altra pletora di idioti che non aspettano altro a ogni latitudine. Il rapporto causa-effetto lo mostrano le due foto che pubblichiamo in prima pagina.

Le quali possono essere lette da sinistra verso destra o anche al contrario, nel senso che nessuno dei due è giustificato dall’altro per i suoi comportamenti: i bruciatori di Corani e quelli di bandiere a stelle e strisce appartengono alla stessa razza. Quella degli idioti appunto.
La domanda allora sorge spontanea e ce la siamo posta anche noi: ma perché allora dargli spazio e visibilità? Basterebbe ignorarli, come viene suggerito di fare con i matti o con i bambini che fanno troppi capricci. Sarebbe la scelta giusta se questa giostra globale non corresse così in fretta, se filmati, foto e dichiarazioni non ci bombardassero senza sosta.
Puoi decidere di ignorare il pastore, ma come fai a tacere il fatto che nel frattempo il Papa, il segretario delle Nazioni Unite, il comandante delle truppe americane in Afghanistan e il Presidente degli Stati Uniti stanno lanciando appelli proprio a quel pastore e alla sua minuscola congrega di fedeli?

Puoi decidere di non mettere nulla sul giornale, ma all’ora di pranzo le agenzie battono il comunicato dell’Interpol in cui si parla di «rischio di attacchi globali». Qualche minuto e in una manifestazione antiamericana a Kabul ci scappa il primo morto.

Così pensi che se decidessi di tenere il giornale fuori da tutto ciò sembreresti tu l’idiota, o perlomeno un insopportabile snob, e che sarebbe tutto inutile. La grande agenzia Ap ha deciso di non distribuire le eventuali foto, ma sappiamo che basta un ragazzino con un cellulare e un computer a casa per far esplodere la rete e arrivare in ogni casa del globo. Gli esempi degli ultimi anni sono centinaia, pensate alle foto di Abu Ghraib o anche solo al filmato del bambino Down picchiato dai compagni di scuola.

A Barack Obama, ieri mattina nella East Room della Casa Bianca, hanno chiesto se non avesse fatto meglio a ignorare il pastore Jones invece di dargli importanza. Il Presidente ha risposto che ha dovuto occuparsi «dell’individuo giù in Florida» - non ha voluto dargli la dignità del nome - per evitare gravi conseguenze contro cittadini e militari americani, che non poteva fare altrimenti.

Così siamo tutti prigionieri di questo «reality show», come lo ha chiamato il direttore del New York Times Bill Keller, che finisce per dettare gli umori globali e farsi guidare da questi.
Ma non c’è proprio nessuna via d’uscita da questa degenerazione della società dell’immagine che è capace di mettere tutto sullo stesso piano, di enfatizzare un particolare fino a farlo diventare un fenomeno universale, che regala ai cretini di ogni sorta il loro minuto di celebrità planetaria?

Qualche cosa si potrebbe fare: una strada esiste, ma non passa dalla censura o dal silenzio, passa invece dallo sforzo di restituire a ogni immagine i suoi veri contorni, di rimetterla a posto nel suo contesto. Bisogna fare più giornalismo, non arrendersi alla valanga di immagini artefatte o di slogan a effetto.

Tutti i giornali del mondo hanno parlato della «Moschea a Ground Zero» e molti nel mondo si sono indignati, forse l’effetto sarebbe stato diverso se tutti avessero scritto che la sala di preghiera dovrebbe nascere a tre isolati dal luogo dove sorgevano le Torri Gemelle o che a quattro isolati già esiste da anni un’altra moschea (di cui nessuno si è mai sognato di chiedere la chiusura).

Fare giornalismo di qualità per cercare di abbassare la febbre del sensazionalismo significa andare a cercare dati e statistiche per dare il giusto peso alle nostre preoccupazioni, che si tratti del numero di crimini, di immigrati illegali, di malati di influenza suina o di moschee con minareto (in Germania ce ne sono 206, in Italia 3). Significa dare voce a chi ha titolo per parlare e non solo a chi garantisce di fare più rumore o più spettacolo.

Fare giornalismo così è faticoso, ma è l’unica strada che abbiamo per salvarci dall’invasione del falso, del verosimile, per cercare di capire qualcosa in questo caos globale.
Anche la politica e la società civile però potrebbero fare qualcosa per restituire ai gesti e alle parole il loro giusto peso: al delirio del reverendo Jones dovrebbero rispondere cento reverendi che pregano insieme a rabbini e muftì davanti a quello che era Ground Zero. L’immagine avrebbe una forza emozionale ed evocativa superiore e questa volta sarebbe l’erba buona a scacciare quella cattiva.

È davvero così difficile immaginare di non arrendersi e decidere che la nostra esistenza non può essere presa in ostaggio dall’ultima immagine che passa davanti ai nostri occhi?

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