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Italia, ritorno al manifatturiero e mini-bonds
di Guido Colomba
(The Financial Review n. 785) Vi sono tre aspetti che possono indurre all'ottimismo nel senso di "think positive". Il primo è costituito dalla testimonianza dell'a.d. di Fincantieri Giuseppe Bono che, dinnanzi a una platea molto qualificata (Canova Club), ha illustrato la storia di successo del gruppo cantieristico italiano, ai primi posti nel mondo. Con due precisazioni meritorie: la prima è di avere delocalizzato "al contrario". Cioè assumendo mano d'opera da tutto il mondo (il manuale di sicurezza è tradotto in 60 lingue) per lavorare in Italia. La seconda è una conseguenza della prima: occorre riaprire e puntare sulle scuole professionali per insegnare i mestieri di base ai giovani italiani (con il 40% di disoccupazione attuale). "Altrimenti - ha detto Bono - tra dieci anni non si troveranno più maestranze e la concorrenza estera ci toglierà il primato". In pratica, Bono ha indicato la via del ritorno al manifatturiero (fino al 2007 costituiva il 25% del PIL) come linea-guida di politica industriale. Una strada intrapresa con energia, già nel 2012, dagli Stati Uniti che ha posto fine alla lunga "delega" cinese. Non a caso Washington, dal giugno scorso, ha avviato con l'Europa la trattativa per una gigantesca zona di libero scambio tra le due sponde dell'Atlantico (Datagate è stato un tentativo di sabotaggio?) con un vantaggio stimato per l'Italia in 21 miliardi di dollari. Il secondo aspetto è rappresentato dai minibond. In Italia vi sono 35mila possibili emittenti che, secondo uno studio del Cerved, hanno i giusti requisiti di solidità e solvibilità. Sulla base di questo rating (classe di rischio e probabilità di default) alle imprese potrebbero arrivare finanziamenti per 35-40 miliardi. I dati relativi a queste 35mila aziende, che rappresentano il 10% del PIL, sono impressionanti. Hanno generato un giro di affari pari a 785 miliardi di euro, con un valore aggiunto di 162 miliardi e debiti verso banche per 140 miliardi. Proprio nella dinamica di queste aziende si trovano le due "chiavi" dello sviluppo competitivo: innovazione e internazionalizzazione. Il governo deve dedicare a questo settore la massima attenzione per rilanciare il settore manifatturiero e creare occupazione. Il terzo aspetto riguarda la classe politica. Il re è nudo e la crisi sta costringendo i due maggiori partiti e non solo, a "cambiare pelle". Le Regioni hanno bloccato anche in questi ultimi due anni di emergenza ogni tentativo di introdurre i costi standard nella sanità (108 miliardi l'anno con un aumento del 40% in dieci anni). Hanno costretto il governo Monti ad allontanare il titolare della spending review, Enrico Bondi, reo di avere subito individuato 10 miliardi di tagli (di cui 3,2 miliardi nei servizi non sanitari). Matteo Renzi ha detto con chiarezza che bisogna voltare pagina. Fassino a Torino ha invocato la "rivoluzione" per ridurre le troppe regole che affliggono il Paese. Nei partiti, finalmente, emergono forti spinte per ridurre gli sprechi della macchina dello Stato e abbattere il debito pubblico. Tra gli opinionisti vi é una certezza: tutti hanno partecipato all'assalto alla diligenza (il debito pubblico è salito oltre il 130% del PIL) portando la pressione fiscale a livelli insopportabili. Di certo, la pazienza della middle class è oramai esaurita. (Guido Colomba, direttore responsabile - Copyright 2013 Edizione italiana)