La contesa tra America e Cina, la tensione crescente da cui spuntano considerazioni e tentazioni anche militari, ha indotto i due governi a mettere in piedi un altro “vertice”. Probabilmente con la partecipazione, da parte statunitense, dell’ex ministro degli Esteri John Kerry, autore di un accordo difficile quanto provvisorio perfino con l’Iran. Ma adesso le relazioni fra le due potenze massime del pianeta si arricchisce (anche e forse soprattutto come contraddizione) di un nuovo confronto-scontro: un cinese si è candidato a sindaco di New York. Si chiama Andrew Yang ed è stato già candidato, minore, alla Casa Bianca nelle primarie democratiche, buttato ai margini dalla frenetica tensione creata dalla candidatura repubblicana di Trump. Nei dibattiti Yang aveva fatto buona figura, insufficiente a proiettarlo alla finalissima, ma che invece fa credibile, ragionevole e colma di speranze la sua presentazione a primo cittadino di quella metropoli che è rimasta la più famosa degli Stati Uniti e per il resto del mondo il simbolo numero uno dell’America.
Yang ha un’esperienza politico-amministrativa, è giovane, colto, credibile nelle sue ambizioni. Però si chiama Yang, non soltanto per l’anagrafe ma anche per i tratti somatici. È cittadino americano, ma il prodotto di un’emigrazione dalla Cina, che fu anche una fuga dall’incubo totalitario di Mao, ma che adesso ha il sapore di contesa, ma sempre più di concorrenza. La Cina è diventata, lo sanno tutti, la seconda Superpotenza del mondo (ereditando il ruolo dallo sfaldamento dell’Unione Sovietica) ma continua ad essere fonte di emigrazione, che fa crescere la percentuale di americani con lineamenti inconfondibilmente asiatici. Fino a poco tempo fa avevano successo economico anche grazie alla loro astinenza dai clamori della politica. Adesso non più e gli ostacoli in America sono cambiati. Ma nel caso di Yang, diminuiti. In America c’è più tensione razziale che non una decina di anni fa, ma è soprattutto di colore. Un numero crescente di bianchi ostacola una sorta di “sollevazione” dei connazionali di pelle nera che in alcuni casi ha resuscitato la violenza armata che si rifà addirittura agli eventi del secolo scorso o addirittura di due secoli fa. Ma un altro tipo di immigrato sta rafforzando la propria presenza senza incontrare nessuna visibile ostilità. A prescindere dal colore, purché sia “chiaro”. L’attuale sindaco di New York, che potrebbe essere sfidato se cercasse la rielezione, è figlio di due famiglie di immigrati: tedesco il padre, italiana la madre. Ma ha scelto il cognome materno per il semplice motivo che a New York vivono più italiani che tedeschi.
Ma un italiano “puro” sta emergendo sulla scena politica con una sfida ancora più ambiziosa di quella di Yang. Si chiama Ron DeSantis. È governatore della Florida e ha un’ambizione ancora più alta di quella di Yang: vuole la Casa Bianca, obiettivo in questo momento più arduo per un uomo politico appartenente come lui al Partito repubblicano, che sta pagando lo scotto della presidenza Trump in misura crescente in diversi campi. La Florida è uno degli Stati giganti e ha da tempo scavalcato New York. E gli italoamericani sono da qualche tempo la denominazione più ampia e solida fra tutte le minoranze etniche. I nostri immigrati sono particolarmente dediti alla politica e controllano, magari a turno, posti di rilievo e soprattutto di potere. Il Segretario di Stato di Trump si chiamava Pompeo. Il presidente della Camera da più di un decennio si chiama Nancy Pelosi. È la massima carica raggiunta da italiani. A puntare ancora più in alto c’è stata, diversi decenni fa, una donna di New York che ha cercato la vicepresidenza. Oltre che numero due, sarebbe stata anche la prima donna. Adesso il suo posto se l’è preso una di pelle alquanto scura ma di sangue indiano e con un nome sanscrito, Kamala. Nei palazzi del potere non era entrato ancora un cinese. Adesso Yang ci prova. Ma la sua candidatura ha già in sé un sapore storico.
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