Articolo di Romano Prodi su
Il Messaggero E’ passata una settimana dalla terribile carneficina che ha
colpito il popolo di Israele. Le testimonianze e le immagini di crudeltà crescono ogni giorno.
Abbiamo assistito in queste ore ad azioni di ferocia e mancanza di umanità che pensavamo non si sarebbero mai ripetute, dopo i campi di sterminio della Seconda Guerra Mondiale.
Di fronte a questi incredibili episodi, non solo la solidarietà a Israele deve essere incondizionata, ma è doveroso riflettere sull’estensione e la profondità a cui il fanatismo è arrivato.
Esso ha sorpreso allo stesso modo coloro che dovevano direttamente provvedere alla sicurezza dei cittadini di Israele, come anche i più attenti osservatori della politica del Medio Oriente. Ho cercato di rileggere le riflessioni di tutti gli analisti e gli scritti degli esperti, ma non ho trovato nessun
lontano accenno all’ipotesi di un evento come quello che è avvenuto.
Di qui nasce un diffuso allarme perché il terrorismo, con i suoi contenuti fanatici, non si limita ad Hamas e agli Hezbollah, ma
si estende in tutto il Medio Oriente, è ritenuto un
pericolo concreto in molti paesi asiatici e controlla una parte crescente del Sahel.
Esso guadagna terreno anche quando si contrappone a strutture militari in teoria
molto più forti. Questo per il fatto di potere usare metodi che, in quanto a ferocia, si pongono sulla stessa linea di quelli praticati da Hamas in Israele. Anche se è venuto il tempo di
riflettere sugli errori della politica di Netanyahu,
talmente estremista da avere persino spaccato in due lo stesso popolo di Israele.
Per questo motivo, oltre che per l’assurda crudeltà di quanto è avvenuto, anche i paesi che avrebbero interesse ad approfittare di questa manifesta sconfitta delle democrazie occidentali, alle quali Israele appartiene, hanno dimostrato prudenza nel commentare quanto sta accadendo.
Gli Emirati si sono schierati con Israele e così l’India. Pechino, pur riaffermando la sua tradizionale vicinanza al popolo palestinese, ha soprattutto auspicato una rapida ripresa di autentici colloqui di pace. E la Russia, che indubbiamente pensa di trarre giovamento da una possibile minore attenzione degli Stati Uniti e dell’Europa nei confronti dell’Ucraina, ha solo posto l’accento sulla necessità di operare per la costruzione di uno stato palestinese.
In favore della necessità di un sostegno all’
integrità della Palestina si sono schierati i paesi islamici dell’Asia, che tuttavia non hanno direttamente attaccato i comportamenti di Israele. Le voci di appoggio all’azione terroristica si concentrano in un ristretto numero di paesi fanaticamente anti israeliani, partendo dall’Iran fino al Libano, all’Algeria, alla Tunisia e al Sudan.
Questo non significa che si riesca a creare un’alleanza contro il terrorismo includendo gran parte del così detto Grande-Sud, ma è certo che, dopo quest’offensiva di Hamas, la paura nei confronti di una
crescita del terrorismo è condivisa da molti più paesi di quanto non fosse prima dei tragici eventi di Israele.
Per quanto riguarda l’economia, anche se si è ancora nella fase iniziale di avvenimenti che avranno imprevedibili risvolti in futuro, le reazioni sono state molto più prudenti di quanto si poteva prevedere, almeno in questi primi giorni di guerra.
Scarse sono state finora le reazioni dei mercati e non molto rilevanti le conseguenze sui prezzi dell’energia, a differenza di quanto era avvenuto nei precedenti episodi di tensione politica nel Medio Oriente.
Il prezzo del petrolio è infatti aumentato di una modesta percentuale, da 84 a 89 $ al barile, (circa il 5%), livelli inferiori ai 94 $ di pochi giorni prima dei tragici avvenimenti. Nulla a che fare con la crisi di cinquant’anni fa, quando la solidarietà tra tutti i paesi arabi e la loro compattezza contro Israele aveva fatto aumentare di cinque volte il prezzo del petrolio.
Il maggiore timore dei mercati è che gli Stati Uniti, dopo avere allentato le
sanzioni all’Iran consentendo un aumento delle esportazioni di cinquecentomila barili al giorno, siano ora spinti a renderle nuovamente più severe, riducendo l’offerta mondiale e provocando quindi un più sostanziale aumento dei prezzi.
Più difficile spiegare la crescita delle quotazioni del gas, di oltre il 40% senza nessuna convincente spiegazione.
Si è parlato della temporanea interruzione dello sfruttamento del giacimento israeliano di Tamar, che però serve il mercato interno di Israele e, in piccola parte, quello egiziano. E’ forse più probabile che questa crescita sia dovuta a fattori del tutto indipendenti dalla guerra di Israele, come gli scioperi negli impianti australiani di gas liquefatto, la possibile diminuzione dell’offerta russa o, addirittura, le scientificamente improbabili previsioni di una maggiore rigidità climatica del prossimo inverno rispetto a quello passato.
Sono tuttavia già sul tavolo altri seri problemi economici. Gli Stati Uniti sono infatti chiamati ad affrontare una crisi molto più complessa perché, se fino ad ora le guerre di Ucraina e di Israele non si sono saldate, le pesanti spese a cui si sono impegnati su tutti e due i fronti si sommano.
L’impegno americano si fa più profondo e politicamente più complesso proprio mentre si sta avvicinando l’inizio di una lunga e
incerta campagna elettorale.
Così come dovrà essere lunga, ampia e costosa la mobilitazione di Israele.
Alla quantità di soldati impegnati intorno e dentro a Gaza si aggiunge infatti l’enorme numero di
militari mobilitati per affrontare una possibile ribellione (un’altra Intifada) nell’intera Palestina.
Il tutto mentre la Cina, almeno per ora, si mantiene estranea da qualsiasi impegno militare e finanziario in entrambi i fronti che stanno provocando agli altri molto sangue e molti sacrifici.