Il caso Marelli – Quel primato perduto nel settore dell’auto
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero
L’improvvisa dichiarazione di chiusura dello stabilimento di Crevalcore da parte della Magneti Marelli ha avuto giustamente un’eco molto più ampia di quanto non si prevedesse. Certo si tratta di un caso molto grave perché la scomparsa improvvisa di oltre duecento posti di lavoro, in un paese di meno di 15.000 abitanti, sarebbe un evento estremamente doloroso, non solo per le conseguenze dirette, ma anche perché la fabbrica è il simbolo del paese stesso.
L’antico nome della Magneti Marelli ha infatti accompagnato la nascita, la durata e la sicurezza del lungo e complesso processo di industrializzazione di Crevalcore.
La forte e unitaria reazione dei lavoratori, delle autorità locali, regionali e nazionali ha portato ad una sospensione della chiusura fino ad un incontro programmato per il prossimo 8 novembre, col compito di “identificare nuove opportunità di industrializzazione”.
Espressione che apre una speranza, ma non certo tranquillizzante dato che, nella mia lunga esperienza in materia, la ricerca di un nuovo acquirente, quando si tratta della chiusura di un’impresa, non è facile e nemmeno a portata di mano.
Soprattutto, come nel caso in questione, quando il compito di cercare un nuovo acquirente non è assunto dalla Magneti Marelli, ma affidato a un consulente di ancora incerta natura.
D’altra parte queste prese di distanza sono tipiche delle imprese internazionali e dei fondi di investimento. La Magneti Marelli ha entrambe queste caratteristiche, da quando, nell’autunno del 2018, la Fiat l’ha venduta al colosso giapponese Calsonic Kansei, a su volta posseduto da KKR, il gigantesco fondo d’investimento americano.
E’ bene, a questo proposito, ricordare che, nel momento della vendita da parte della Fiat, la Magneti Marelli aveva 43.000 dipendenti, dei quali 10.000 in Italia. Oggi i dipendenti sono saliti a 50.000, ma solo 7.000 in Italia, con esuberi previsti in molti altri impianti. L’allarmante situazione dello stabilimento di Crevalcore è un grave episodio di una strategia in azione da ormai cinque anni.
Il caso è quindi opportunamente divenuto nazionale perché ha reso visibile come il processo di decadenza dell’industria automobilistica italiana abbia cominciato ad erodere anche l’industria dei componenti, che pure rimane ancora il pezzo forte della nostra presenza nel settore dell’auto.
D’altra parte diventerà difficile difendere la nostra presenza nelle produzioni di componenti, quando il passaggio verso l’auto elettrica diminuisce il loro numero, concentrandosi soprattutto sulle batterie, divenute parte dominante della nuova generazione di automobili. Pistoni, cilindri, filtri, iniettori, testate, pompe, serbatoi e tutte le diavolerie che compongono il motore endotermico scompaiono.
Abbiamo già più volte sottolineato come il grande numero di nuove fabbriche di batterie già in costruzione o definitivamente decise sia orientato verso Svezia, Germania, Francia, Spagna, Repubblica Ceca, Ungheria, mentre nessuna sia stata destinata all’Italia.
Anche le decisioni di nuovi impianti di batterie che riguardano Stellantis sono già in fase di costruzione in Francia e Germania, mentre l’ipotizzata realizzazione di un pur minore impianto destinato a Termoli è stata rinviata al 2026, per entrare eventualmente in produzione nel 2030. E’ chiaro quindi che l’investimento in Italia si concretizzerà solo se gli impianti franco-tedeschi non saranno sufficienti.
Non è tuttavia unicamente un problema di batterie perché tutto il settore dell’auto è in discussione.
Nell’anno in corso, la nostra domanda interna si aggirerà infatti intorno a un milione e cinquecentomila vetture e ne produrremo in Italia solo quattrocentomila, cioè poco più di un quarto, essendo ormai relegati al settimo posto in Europa.
Se poi mettiamo a confronto gli stabilimenti Stellantis in Francia e in Italia, troviamo che in Francia vengono prodotti quindici modelli di auto elettriche e in Italia sette.
Ancora maggiore è la differenza se prendiamo in considerazione la produzione di componenti per auto elettriche o ibride.
Le cose non potrebbero essere diverse dato che le strutture di ricerca, riguardo alle quali il ruolo della Fiat era molto significativo, sono ormai insediate oltralpe. Basti pensare che nel 2021, da parte di Stellantis, sono stati depositati 166 brevetti in Italia e 1239 in Francia.
L’aspetto più rilevante è che in Francia è stato sviluppato un progetto di filiera nazionale integrata, per cui ogni stabilimento produce un componente essenziale: a Douvrin le batterie, a Valenciennes i riduttori di velocità, a Trémery i motori elettrici e così via. Un sistema nazionale integrato che, ovviamente, minimizza gli acquisti dalle fabbriche di altri paesi e aumenta il valore aggiunto nazionale.
Nulla di simile in Italia dove gli investimenti programmati permetteranno unicamente tre nuove linee di produzione a Melfi, Mirafiori e Cassino. Gli altri stabilimenti non verranno nemmeno parzialmente riconvertiti e non vi è alcun progetto per arrivare a una filiera nazionale integrata, con tutte le fragilità che questa mancanza comporta. E d’altra parte, come potremmo avere una filiera nazionale quando non esiste un protagonista nazionale e, soprattutto, non esiste una politica industriale nazionale?
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