Tema dell'incontro transatlantico, lo scandalo di un giornalista del New York Times che e' stato licenziato per 'plagiarism', ovvero per avere copiato degli articoli pubblicati dal Wall Street Journal e averli riportati nelle sue corrispondenze senza citarne la fonte.
Gli Stati Uniti non sono il migliore dei mondi possibili. Ma nella cultura anglosassone, ispirata da un solido protestantesimo, 'to cheat', imbrogliare, e' uno dei peccati mortali che puo' avere conseguenze letali per la professione (giornalistica, accademica o in senso lato).
Mentre in Italia si pecca, ma si viene assolti con tre Pater-Ave-Gloria e si ricomincia a peccare, in America non ci sono mezze tinte: se vieni beccato a cercare di frodare gli altri finisci male.
Il caso del giornalista del New York Times non e' certo il prino incidente di percorso che ha macchiato la reputazione della corazzata dell'informazione giornalistica americana. Sette anni fa, Jason Blair giovane reporter afroamericano che aveva scalato in tempi vertiginosi la professione al NYT, fu costretto alle dimissioni perche' in ben 36 articoli aveva copiato pezzi fatti da altri senza citarli. Il giornale fu costretto alla pubblicazione di un'intera pagina di scuse nei confronti del lettore e due dei massimi dirigenti della testata, poco dopo, furono costretti anche loro al ritiro per non avere indagato a fondo sulla produzione del giornalista considerato un fenomeno dell'informazione.
Negli Stati Uniti per esempio, se un quotidiano pubblica una notizia di agenzia, questa viene citata correttamente. In Italia il 50 per cento della composizione di un quotidiano e' fatto sulla base di agenzie. Ma non trovate mai alcuna citazione della fonte. Provate a verificare per credere.
Resta poi il discorso dei giornalisti che diventano trombettieri del Re di turno.
Un caso accaduto sempre al New York Times, quattro anni fa, riguardava Judith Miller, una delle colonne della news room del potente giornale.
La Miller, come forse qualcuno ricordera', fu condannata a tre mesi di prigione, per non avere voluto presentarsi al Grand Jury nel quale si discuteva chi avesse fornito ai media il nome di Valerie Plame, moglie dell'ex ambasciatore Wilson, inviso a George W. Bush perche' in un articolo sul NYT aveva espresso dubbi sulle motivazioni dell'invasione dell'Irak da parte americana.
Il nome di Valerie Plame, agente coperto della CIA, era stato proclamato ai quattro venti, mettendo a repentaglio non solo l'incolumita' della donna e dei figli, ma anche tutti i contatti in altri paesi che la Plame aveva attivato.
Dopo i tre mesi di detenzione, Judith Miller, diventata per un po' l'eroina della stampa mondiale, viene sottoposta ad una analisi critica delle corrispondenze fatte dall'Irak nelle quali sosteneva che in effetti le armi di massa di Saddam Hussein esistevano.
Si e' scoperto che la signora era in pratica la portavoce dell'amministrazione Bush. Fatto questo da lei stessa ammesso affermando che un giornalista deve riportare quanto dichiarato dalla Casa Bianca. E sollevando un coro di accuse, perche' la signora aveva omesso di ricordare che la regola fondamentale di un corretto giornalismo e' quella di mettere a confronto opinioni e fonti diverse.
La Miller e' stata allontanata dal New York Times ed e' oggi corrispondente di Fox News, televisione iper repubblicana. Come volevasi dimostrare.
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