Fare un film in America e provare a farne uno in Italia.Impara l'arte e mettila da parte e pensa a chi ti ha dato i soldi per fare il film e li rivuole indietro con gli interessi.Questo ed altro nell'intervista rilasciata da Max Bartoli attualmente a Los Angeles per completare gli effetti speciali del suo film "Atlantis Down".
http://think.iulm.it/2010/07/max-bartoli/
Max Bartoli, giovane regista italiano già affermato a livello internazionale, alle prese con il suo primo lungometraggio. Parlaci di “Ignotus”, cortometraggio che ti ha fatto conoscere.
“Ignotus” rappresenta il mio debutto ufficiale nel cinema. Dopo aver lavorato sei anni in pubblicità, nel 2005 ho deciso di darmi una chance come regista. Sapevo che il modo migliore per testare le mie capacità era dirigere un cortometraggio, ma volevo qualcosa di originale rispetto a quello che si vede in giro.
“Ignotus”, cortometraggio ambientato nel XII secolo, è nato così. La mia esperienza in produzione mi ha consentito di realizzarlo con soli 20 mila euro (i miei) anziché i 110 mila euro inizialmente preventivati. In Italia, ovviamente mi hanno snobbato tutti, a partire dal Ministero competente in materia di cinema. Ho spedito il corto a 60 festival nazionali e soprattutto internazionali. Risultato? 25 premi (10 come miglior corto) tra cui miglior cortometraggio a NY, a L.A., al Capri-Hollywood, una lettera di congratulazioni da parte del Papa Benedetto XVI, dell’attuale Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e di Romano Prodi; e soprattutto una miriade di contatti a Hollywood.
Com’è stato possibile portare il “Made in Italy” negli Stati Uniti?
Esportare il “Made in Italy” è stato facile, perché in America a tutti è data una possibilità di poter competere. Chiunque creda in se stesso al punto da volerci provare può accedere al ‘campo di gara’. La competizione sarà spietata e senza esclusione di colpi ma qui, ringraziando Dio, si riesce a prevalere ancora per merito. Con “Ignotus” sapevo di aver espresso la mia voce fuori dal coro, quella voce ha trovato un suo pubblico. “Ignotus” è stata la chiave che mi ha permesso di realizzare “Atlantis Down”.
La scelta della fantascienza arriva in un momento in cui gli effetti speciali nel cinema diventano sempre più simili alla realtà. In questo senso, come cambia la professione del regista?
La scelta della fantascienza è stata casuale e fortunata, visto che è coincisa con il debutto di Star Trek e di Avatar, due film che hanno riportato il genere in auge. Personalmente non ritengo gli effetti speciali cambino di molto il lavoro del regista, così come non l’hanno cambiato le nuove tecnologie. Girare un film significa raccontare una storia, il CGI e le telecamere digitali rappresentano dei nuovi colori nella ‘tavolozza dei registi’. Il work-flow è stato modificato in alcuni punti, ma le tecniche e gli approcci restano invariati.
Lavorare negli USA è certamente una sfida: il mercato di riferimento, i competitors, la distribuzione su un territorio molto esteso. Quale è la strategia che stai adottando?
La mia risposta solleverà un vespaio, ma ci sono abituato, per cui te la do lo stesso. Lavorare in un’economia di mercato non condizionata dai finanziamenti statali per me è sempre stato più facile e stimolante per due ragioni: la prima è che, come già sottolineato, qui a tutti è data una possibilità anche se non si è raccomandati dal politico di turno o non si ha un santo in paradiso. Tu sei libero di giocarti la partita come vuoi e con le armi che hai. La seconda è che il cinema è nato e resta un business (da 9.8 miliardi di dollari) con regole molto precise e deve essere considerato come tale. In Italia molti registi, soprattutto quelli più giovani, considerano il cinema solo come un’arte e in quanto tale come un’attività meritoria dell’intervento dello stato a priori. Per me il cinema è un’espressione artistica, alcuni film assurgono ad opere d’arte, ma questo non significa che tutti i film lo siano per definizione. Se questo sillogismo fosse vero allora le tele di Teomondo Scrofalo avrebbero lo stesso valore di quelle di Michelangelo!
Girare un film richiede un budget e quindi qualcuno che ti dia i soldi. Ora, a meno che uno non creda ancora a Babbo Natale, i soldi chi te li dà li rivuole indietro. Se questo non succede, normalmente, il regista il secondo film non lo gira.
Di strategia potremmo parlare per ore, anche perché la nostra è piuttosto complicata, ma la versione “Bignami” è questa: “Atlantis Down” è un piccolo film con un cast in cui compaiono due nomi con un certo valore commerciale (Michael Rooker è il più grande tra questi) ma soprattutto ha un valore aggiunto, in termini di produzione, enorme. La qualità alla fine paga sempre, soprattutto quando si riesce a produrla con un budget ridicolo. Girare un film con 10 milioni di dollari è facile, girarlo con 1 milione e farlo sembrare girato con 10 è un’altra cosa.
Ci dai qualche consiglio per i giovani studenti che vorrebbero intraprendere un cammino simile al tuo?
Ai più giovani posso solo dare un consiglio: se volete veramente fare questo lavoro, imparate il più possibile, lavorate incessantemente sempre mantenendo i piedi per terra e siate pronti a fare enormi sacrifici. Alla fine sarete ripagati.
Intervista a cura del Master in Comunicazione per le relazioni internazionali
Esportare il “Made in Italy” è stato facile, perché in America a tutti è data una possibilità di poter competere. Chiunque creda in se stesso al punto da volerci provare può accedere al ‘campo di gara’. La competizione sarà spietata e senza esclusione di colpi ma qui, ringraziando Dio, si riesce a prevalere ancora per merito. Con “Ignotus” sapevo di aver espresso la mia voce fuori dal coro, quella voce ha trovato un suo pubblico. “Ignotus” è stata la chiave che mi ha permesso di realizzare “Atlantis Down”.
La scelta della fantascienza arriva in un momento in cui gli effetti speciali nel cinema diventano sempre più simili alla realtà. In questo senso, come cambia la professione del regista?
La scelta della fantascienza è stata casuale e fortunata, visto che è coincisa con il debutto di Star Trek e di Avatar, due film che hanno riportato il genere in auge. Personalmente non ritengo gli effetti speciali cambino di molto il lavoro del regista, così come non l’hanno cambiato le nuove tecnologie. Girare un film significa raccontare una storia, il CGI e le telecamere digitali rappresentano dei nuovi colori nella ‘tavolozza dei registi’. Il work-flow è stato modificato in alcuni punti, ma le tecniche e gli approcci restano invariati.
Lavorare negli USA è certamente una sfida: il mercato di riferimento, i competitors, la distribuzione su un territorio molto esteso. Quale è la strategia che stai adottando?
La mia risposta solleverà un vespaio, ma ci sono abituato, per cui te la do lo stesso. Lavorare in un’economia di mercato non condizionata dai finanziamenti statali per me è sempre stato più facile e stimolante per due ragioni: la prima è che, come già sottolineato, qui a tutti è data una possibilità anche se non si è raccomandati dal politico di turno o non si ha un santo in paradiso. Tu sei libero di giocarti la partita come vuoi e con le armi che hai. La seconda è che il cinema è nato e resta un business (da 9.8 miliardi di dollari) con regole molto precise e deve essere considerato come tale. In Italia molti registi, soprattutto quelli più giovani, considerano il cinema solo come un’arte e in quanto tale come un’attività meritoria dell’intervento dello stato a priori. Per me il cinema è un’espressione artistica, alcuni film assurgono ad opere d’arte, ma questo non significa che tutti i film lo siano per definizione. Se questo sillogismo fosse vero allora le tele di Teomondo Scrofalo avrebbero lo stesso valore di quelle di Michelangelo!
Girare un film richiede un budget e quindi qualcuno che ti dia i soldi. Ora, a meno che uno non creda ancora a Babbo Natale, i soldi chi te li dà li rivuole indietro. Se questo non succede, normalmente, il regista il secondo film non lo gira.
Di strategia potremmo parlare per ore, anche perché la nostra è piuttosto complicata, ma la versione “Bignami” è questa: “Atlantis Down” è un piccolo film con un cast in cui compaiono due nomi con un certo valore commerciale (Michael Rooker è il più grande tra questi) ma soprattutto ha un valore aggiunto, in termini di produzione, enorme. La qualità alla fine paga sempre, soprattutto quando si riesce a produrla con un budget ridicolo. Girare un film con 10 milioni di dollari è facile, girarlo con 1 milione e farlo sembrare girato con 10 è un’altra cosa.
Ci dai qualche consiglio per i giovani studenti che vorrebbero intraprendere un cammino simile al tuo?
Ai più giovani posso solo dare un consiglio: se volete veramente fare questo lavoro, imparate il più possibile, lavorate incessantemente sempre mantenendo i piedi per terra e siate pronti a fare enormi sacrifici. Alla fine sarete ripagati.
Intervista a cura del Master in Comunicazione per le relazioni internazionali
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