di Guido Colomba
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(The Financial Review n. 778) Tony Blair, primo ministro per tre mandati consecutivi, ha due grandi meriti. Il primo di aver combattuto una durissima battaglia interna per liberare il Labour Party dagli ideologismi del passato. Il secondo di aver mantenuto l'eredità della Thatcher riformando però il welfare state (il New Labour) per adeguarlo ai tempi. Quale correlazione ha tutto ciò con il "caso Italia" all'indomani della implosione del governo Letta per le insane dimissioni dei ministri Pdl? Riguarda il capitolo delle "riforme interne"("Un viaggio", Rizzoli, 2010 pag. 566). "All'inizio - ricorda Blair - pensavamo di mantenere i parametri del servizio pubblico e al contempo di poter trasformare profondamente quel sistema. Col tempo ci siamo resi conto di esserci sbagliati: senza cambiare le strutture, non si possono elevare gli standard, se non di pochissimo". L'obiettivo diventò allora: a) cambiare la natura monolitica del servizio pubblico, b) introdurre la competizione, c) sfumare le distinzioni tra il settore pubblico e quello privato, d) contrastare le tradizionali demarcazioni professionali e sindacali riguardo al lavoro e agli interessi acquisiti. In generale, cercare di liberare il sistema, lasciare che si rinnovasse, si differenziasse al suo interno, respirasse, divenisse più elastico". Ecco, questo potrebbe benissimo essere il preambolo per il programma governativo in Italia. Ma nulla del genere è stato fatto anche nel corso degli ultimi due anni (Governi Monti e Letta) nonostante le sollecitazioni europee e della Bce. Come mai? Che cosa lo ha impedito? Da qui bisogna partire per pensare al futuro senza essere inchiodati alla inutile cronaca quotidiana dei talk show. Ed è paradossale che "Il Fatto quotidiano", piuttosto che "Corriere della Sera" o "Repubblica", spieghi con assoluta chiarezza che cosa ci aspetta in tema di Imu, Iva e politica fiscale sul costo del lavoro. Praticamente si intende “finanziare meno tasse” con nuova tassazione. Della spending review non vi è più traccia (la Francia su una manovra di 18 miliardi ha deciso riduzioni di spesa per 15 miliardi) mentre si acuisce il “disagio” delle banche i cui incagli superano oramai i 150 miliardi. Sul fronte esterno, il timore di una totale "germanizzazione" europea dopo la riconferma della Merkel, si riassume in tre cifre. Con il 7% della popolazione mondiale, l'Europa vanta il 25% del PIL e spende il 50% mondiale per il welfare state. Dunque, è proprio sui costi (in termini di sprechi) e sulla sostenibilità del welfare state (le regioni costano troppo) che si gioca la partita del futuro dell'Italia. Nel rievocare a Milano l'economista Luigi Spaventa, Mario Draghi ha ricordato che è stata proprio l'Italia ad avere i maggiori vantaggi dall'euro. L'Italia pagava sul debito dei titoli di stato quasi il 12% di interessi con una differenza del 3% sulla Germania. Con l'euro, l'Italia paga molto di meno ma non ha utilizzato questo enorme vantaggio per migliorare la competitività e per riformare il perimetro dello Stato a vantaggio di una minore tassazione sul lavoro e sulle famiglie. Quanti continuano a negare questa verità storica fanno soltanto male a se stessi. (Guido Colomba) Copyright 2013 – Edizione italiana -
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News and comments from the Capital of the United States (and other places in the World) in English and Italian. Video, pictures, Music (pop and classic). Premio internazionale "Amerigo".
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Blair e il caso italiano
Decadenza Berlusconi....che palle....
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Che invidia per le squadre di calcio, lì almeno c'è una regola chiara. Poniamo che un allenatore dica all'arbitro: guai a te se mi fischierai un rigore contro, perché subito dopo la mia squadra abbandonerà il campo di gioco. Risultato? L'allenatore sarà squalificato per condotta antisportiva, la squadra uscirà sconfitta a tavolino per 3 a 0. Dopo di che il campionato prosegue senza interruzioni. E se invece non c'è di mezzo una partita ma un partito? Se quel partito (il Pdl) annuncia le dimissioni in massa dei suoi parlamentari?
Idea geniale, ma non del tutto originale. Nel gennaio 1864 si dimise Garibaldi, insieme ad altri 9 deputati: i garibaldini, per l'appunto. Tuttavia il precedente non fa testo, e non solo perché il partito di Silvio Berlusconi è allergico alle camicie rosse. Stavolta cambiano i numeri dell'esodo, dunque pure le sue conseguenze. Non cambiano però le procedure, o almeno non del tutto. Cerchiamo di metterle in fila.
Primo: le dimissioni sono un atto individuale, non collettivo. Vanno perciò presentate una per una. E vanno altresì votate in Parlamento, per giunta a scrutinio segreto, dato che si tratta d'una votazione su singole persone. Anche questa regola ha origini remote: risale al 20 dicembre 1850 il primo voto negativo sulle dimissioni del deputato Incisa Beccaria, che dunque rimase inchiodato al proprio scranno. Oggi però vige una regola al quadrato, giacché per prassi la richiesta non viene mai accolta alla prima votazione. Un antidoto contro le dimissioni in bianco, che qualche partito faceva firmare ai propri candidati alle elezioni (se sgarri, ti licenzio). Anche il secondo voto, però, non sempre è positivo. Nel 2006 Prodi governava sul filo del rasoio, sicché al Senato ogni assenza diventava una tragedia. Da qui le dimissioni dei sottosegretari-senatori, regolarmente impallinate nel segreto dell'urna. Per forza: la destra sperava nel rasoio, i sottosegretari (e i loro amici) disperavano della longevità di Prodi.
Secondo: il Porcellum. Significa che ogni eletto ha alle calcagna un non eletto, che ne prenderà le veci se lui libera la poltrona in Parlamento. Sicuro che avrà voglia di dimettersi a sua volta? Tanto per dire, dietro Berlusconi incalza il molisano Di Giacomo, che ha già fatto sapere di non volerne sapere. Ma ammettiamo pure che obbediscano tutti come soldatini, benché fra voti e controvoti ci vorranno mesi prima d'arrivare al capolinea. Scatterà a quel punto un autoscioglimento delle Camere? Manco per niente. La «dissoluzione» avviene quando manchi il numero legale, e non è questo il caso. Alla Camera il Pd ha la maggioranza assoluta, al Senato il Pdl - anche sommandovi la Lega e Grandi autonomie - raggiunge 117 seggi, mentre il numero legale viaggia a quota 161. Quindi si può andare avanti, come d'altronde è già successo: la XIV legislatura (2001-2006) s'aprì e concluse con 12 scranni vuoti.
Insomma: un colpo fragoroso, però senza proiettile. E al contempo una litania di paradossi. Con l'annuncio d'una crisi istituzionale senza crisi di governo, mentre semmai dovrebbe succedere il contrario. Con la lettera a Napolitano contro gli abusi della Giunta firmata ieri da Brunetta e Schifani, come se fosse lui la Giunta del Senato. Con un'interminabile querelle sulla retroattività della legge Severino, quando comunque fra un paio di settimane Berlusconi verrà interdetto dai pubblici uffici. Infine con un drappello di ministri che si dimettono da parlamentari ma intanto restano ministri. È ormai la cifra della Repubblica italiana: una Repubblica dimessa, non dimissionaria.
Insomma: un colpo fragoroso, però senza proiettile. E al contempo una litania di paradossi. Con l'annuncio d'una crisi istituzionale senza crisi di governo, mentre semmai dovrebbe succedere il contrario. Con la lettera a Napolitano contro gli abusi della Giunta firmata ieri da Brunetta e Schifani, come se fosse lui la Giunta del Senato. Con un'interminabile querelle sulla retroattività della legge Severino, quando comunque fra un paio di settimane Berlusconi verrà interdetto dai pubblici uffici. Infine con un drappello di ministri che si dimettono da parlamentari ma intanto restano ministri. È ormai la cifra della Repubblica italiana: una Repubblica dimessa, non dimissionaria.
Elezioni in Austria
Alberto Pasolini Zanelli
Una Germania in
piccolo, una “seguace” non un leader. Una “imitazione” a ruoli, forse,
capovolti. Ma soprattutto un test. L’Austria che va oggi alle urne per
rinnovare il Parlamento è infatti la prima nazione ad avere l’occasione di
esprimere, oltre alle preferenze e scelte del “mercato” interno, un giudizio e
dei sentimenti dopo il test elettorale tedesco che, una settimana prima, ha
consegnato ad Angela Merkel la sua terza laurea ad honorem. A Berlino si deve
ancora decidere quale governo uscirà dalle consultazioni del lunedì mattina,
quale coalizione raccoglierà l’eredità, non certo troppo ardua, della
maggioranza democristiana-liberale che ha governato la Germania negli ultimi
quattro anni e che ha, scegliendo la continuità, impresso invece una svolta ai
Paesi vicini, soci, collaboratori o “vittime” dell’era di austerità germanocentrica
che potrà cambiare la faccia dell’Europa, le sue aspettative, le sue regole, le
sue speranze.
Non che l’Austria
sia un “campione” indicativo degli umori continentali: i suoi legami con il
vicino del Nord sono antichi, robusti, ineguagliati e ineguagliabili;
nell’Europa “a due velocità” emersa dalla “crisi del debito” pochi hanno motivi
di soddisfazione: lo dimostra fra l’altro la statistica della disoccupazione, che
è aumentata ovunque tranne che in Germania e in piccoli Paesi come il
Lussemburgo. L’Austria è un caso a parte, sospesa. Non si è arrampicata e non è
affondata. Non è tranquilla ma non è angosciata. Deve, semplicemente, risolvere
certi suoi problemi strutturali, ma è psicologicamente preparata. Non è certo a
Vienna che nascerà un nuovo focolare di contestazione alla leadership di
Berlino.
Anche il quadro
politico è molto simile. In Germania si sono affrontati il 22 settembre otto
partiti su scala nazionale, quattro dei quali sono entrati nel Bundestag e
quattro no. In Austria una settimana dopo i concorrenti sono nove e potrebbero
farcela in cinque. L’“ordine d’arrivo” sarà simile, con una differenza
importante: i tedeschi hanno collocato al primo posto i democristiani e al
secondo i socialdemocratici, gli austriaci potrebbero fare il contrario. Di
conseguenza la Grande Coalizione che si profila a Berlino potrebbe non avere
alternative a Vienna. È anche diversa la sua storia: le alleanze fra
democristiani e socialisti tedeschi sono nate ogni volta da situazioni di
emergenza, almeno parlamentare, e costituiscono l’eccezione. In Austria esse
sono la regola nel secondo dopoguerra, dettata dalle tragiche esperienze
successive alle prime fra la caduta dell’Impero Asburgico e l’Anschluss hitleriano.
Spo e Ovp si presentano alle urne già al potere assieme, con eccellenti
prospettive di mantenere, sommate, una forte maggioranza parlamentare. Le
alternative, che a Berlino sono poche, difficili e necessarie, sono a Vienna
possibili, difficili, controverse. All’alleanza fra Cdu e Spd al Bundestag
possono concorrere due altre formule imperniate sul partito più conservatore: socialdemocratici
o Verdi. C’è una teorica maggioranza di sinistra, che però dipenderebbe dai
voti comunisti ed è quindi da escludersi; i dc austriaci potrebbero invece
governare con l’appoggio di partiti alla loro destra, i nazional-liberali
sopravvissuti alla leadership del defunto Joerg Haider e il Team Stronach,
fondato da un eccentrico magnate austro-canadese che propone fra l’altro la
reintroduzione della pena di morte. I socialdemocratici potrebbero a loro volta
ricorrere all’appoggio dei Verdi, ma soprattutto come “bilancia” alla
cooperazione con i democristiani.
I temi del dibattito
sono stati soprattutto economici, sulla scia del governo attuale che ha posto
come traguardo un deficit zero entro il 2016, da ottenere eventualmente anche
con l’introduzione di una tassa sulla casa. Il tema economico è anche in
Austria dominante, mentre gli atteggiamenti dei partiti sull’Europa sono
differenti dai tedeschi: i partiti di sinistra a Vienna sono filoeuropei mentre
il campo degli euroscettici è coltivato dai nazional-liberali e dai due
movimenti alla loro destra. Essi raccoglieranno i voti di protesta, che
dovrebbero però avere dimensioni modeste. Così come limitate si prevedono le
perdite di consensi dei due partiti maggiori e, dunque, delle loro ritrovate
nozze.
Myrdal e le aspettative economiche
22/09/2013 19.27.37
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di Guido Colomba
Gestione caotica della finanza pubblica. Saccomanni minaccia le dimissioni.
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(The Financial Review N.777) "Le aspettative guidano le scelte economiche". Il nobel Gunnar Myrdal (1974) ha il merito di aver esteso il campo dell'indagine economica ad altre discipline. Solo la classe politica italiana insieme alla casta dei superburocrati sembra del tutto insensibile a questa verità. La lettera della Bce di due anni fa (luglio 2011) è rimasta del tutto inascoltata. Le riforme non sono state fatte e l'emergenza è stata affrontata con nuove tasse. Non sorprende che cinque giorni fa il commissario Olli Rehn sia venuto a Roma a bacchettare l'Italia. Il programma di Mario Monti risulta attuato solo al 34% poiché la "casta" si è inventato il sistema di annunciare le decisioni, di tradurle in leggi che poi non vengano attuate con il trucco dei "decreti attuativi" che restano nel cassetto o vengono diluiti inesorabilmente nel tempo. Questo meccanismo, perverso, è noto a tutti. Ora, anche Saccomanni minaccia le dimissioni perché si è reso conto che non si vuole ridurre la spesa pubblica e si continua a parlare di occupazione e sviluppo semplicemente con interventi a pioggia incuranti dell'aumento del debito (oltre 80 miliardi nel 2013). "Gli italiani -dice Saccomanni - meritano la verità sulla finanza pubblica". Quali sono le aspettative italiane all'indomani della vittoria di Angela Merkel alle elezioni tedesche? La stessa Unione europea ha poche cartucce disponibili. Le banche restano deboli e debbono raccogliere capitali per cautelarsi dalle perdite. Una situazione che impedisce alle banche sottocapitalizzate di dedicare una significativa attività di prestito alle imprese. Così lo scenario della ripresa resta improbabile. Ecco perché la Banca d'Italia (con un patrimonio netto di 23,5 miliardi) è ora favorevole alla rivalutazione delle quote di partecipazione delle banche nel proprio capitale attualmente valutate a prezzi irrisori. Una soluzione che farebbe affluire all'Erario circa un miliardo di maggiore imposta sostitutiva. E' chiaro però che si tratta di "window shopping". Non sono gli artifizi contabili a poter risolvere il problema di una spesa pubblica che continua a salire. La riforma del capitolo quinto della Costituzione è un fardello ormai insostenibile. Regioni, Comuni e Province non vogliono mollare la presa sulla proprietà e la gestione delle società controllate che sono più di 5.500 sparse in tutto il territorio con una rete di partecipazioni azionarie di alcune decine di migliaia (quelle di servizio sono 33mila) dalle dimensioni tuttora incerte. Per l'Unioncamere esse rappresentano il 2% del PIL italiano. Entro fine mese, il 96% dei Comuni dovrebbe privatizzare le proprie società. Ma tutto è bloccato per l'ennesima volta. Eppure, l'ultimo censimento spiega che i risultati economici sono crollati del 77% nel solo 2011 mentre il 44% delle società locali ha chiuso in perdita. Di quanto? Si parla di un deficit pari a 1,5-2,0 miliardi di euro (nonostante l'aumento delle tariffe pari al 55% in dieci anni) ma cifre ufficiali non sono disponibili nè aggiornate al 2013. Anzi il Tesoro, quasi dieci anni fa, ha addirittura liberalizzato a favore degli Enti locali la possibilità di stipulare contratti su strumenti derivati usati per "far cassa". Lasciando in eredità un nozionale superiore ai 30 miliardi di euro e una perdita potenziale, in caso di chiusura dei contratti, stimata in 5-6 miliardi. Insomma una gestione della cosa pubblica fatta alla giornata come in un mercatino rionale. (Guido Colomba) Copyright 2013 - edizione italiana Fonte: (R.F. Anno 51 - N°777, 22/9/2013 ore 19:27)
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Nairobi
Alberto
Pasolini Zanelli
Giorno dopo
giorno, ora dopo ora, la cronaca che da Nairobi raggiunge tutto il mondo
racconta ma non spiega. Sappiamo, ormai (ed è un brutto segno, perché indica
che l’attacco terroristico, anche se destinato a fallire in senso tecnico e a
trascinare nella tomba i suoi guastatori), che il colpo di mano si è
trasformato in battaglia, come pare fosse fin dall’inizio l’intenzione degli
organizzatori e dei mandanti. Mentre si continua a combattere, va avanti anche
la conta lugubre delle vittime, la brusca presa di contatto con una realtà che
per la maggior parte di noi è stata sorprendente mentre non era necessario che
lo fosse. Quando si parla di “terrorismo cieco” si ripete, il più delle volte,
un cliché distaccato dalla realtà. Il Kenya non fa parte dei campi di battaglia
tradizionali tra le organizzazioni terroristiche di stampo islamico e le forze
dell’ordine planetario. Pareva, tutt’al più, una retrovia.
E invece
l’assalto è avvenuto contro uno dei quartier generali. Lontana dalle prime
linee, e fino all’altro ieri dalle cronache, Nairobi è uno dei centri
nevralgici della resistenza all’assalto del terrore. Il Kenya non è un Paese
islamico: lo dimostra anche la sua storia recente, dalla conquista
dell’indipendenza poco più di mezzo secolo fa all’emergere in quello Stato
neonato di una classe dirigente che ha finito col produrre addirittura il
presidente degli Stati Uniti. I compatrioti di papà Obama hanno basi, linee
interne di collegamento, centri di addestramento per una forza internazionale antiterrore
e antiguerriglia. Non è un caso che vi sia stanziata una importante unità
antiterroristica israeliana, è intuibile una non transitoria presenza
americana, si sa che dalle coste keniane è partita la lunga e lungamente
“coperta” offensiva contro il fenomeno della pirateria, in sé “apolitico” ma
locato strategicamente in un’area nevralgica. I pirati erano e sono in gran
parte “frange” di disperati alla ricerca di facile bottino, ma la loro presenza
segnalava una più vasta offensiva destabilizzante in un angolo tutt’altro che
morto della Terra ma vicino anzi ad alcune delle sue arterie commerciali più
essenziali. I pirati si imbarcavano quasi tutti, e non è un caso, dalla
Somalia, cioè da uno “Stato fallito” e dunque da una regione del mondo che
aveva perduto o rigettato ogni forma politica e legale di controllo. Ma della
Somalia sappiamo anche che vi è in corso una guerra ricca di obiettivi
strategici, un insediamento massiccio e senza diaframmi statali dell’estremismo
jihadista con il suo volto più scoperto. Mogadiscio ha rischiato più volte di
diventare la capitale nominale di uno Stato inesistente e trasformato in
struttura semiplanetaria di base del terrorismo e delle strategie di conquista
del fondamentalismo islamico e jihadista. Nelle acque dell’Oceano Indiano
questa controffensiva ha avuto successi tanto più significativi quanto deliberatamente
taciuti o minimizzati.
Ed è contro il
Kenya come base arretrata della lotta al terrore che i terroristi hanno lanciato
oggi la loro rappresaglia più o meno “firmata”. I Signori della Guerra
accampati in Somalia vi sono stati affrontati da iniziative militari condotte
direttamente dal governo e dalle forze armate keniote, in prima fila in uno
sforzo internazionale per respingere da Mogadiscio e da altri maggiori centri
somali le milizie islamiste conosciute sotto il nome di al Shabab, che vi aveva
trovato un’“oasi” e una centrale strategica paragonabili a quella instaurata un
quarto di secolo fa dalle medesime forze nell’Afghanistan dei talebani. Il
“cervello” dell’idra, con basi per lanciare operazioni di guerriglia, per
esempio nel Darfur e nel neonato Stato del Sud Sudan. Con obiettivi a più lungo
raggio, inoltre, si cerca di ostacolare l’emergere di un’area di economie
emergenti geograficamente estese da Singapore all’Africa Orientale con
epicentro in India. Il tipo di azioni, la somiglianza dei bersagli e delle
tattiche rivela impressionanti coincidenze anche a largo raggio: all’una
estremità il Mali, dove l’offensiva dei jihadisti è stata, forse solo
momentaneamente, bloccata dall’intervento militare francese, all’altra nell’Oceano
Indiano, passando per la Libia, il cui governo è sempre di più attaccato ed
esautorato da forze ribelli. Questo vasto terreno si offre anche come terreno
di coltura di nostalgie apertamente espresse per un Califfato: parole e musica,
citazioni precise dai proclami e dai programmi di Osama Bin Laden. Un nome che
dice molto. Tranne che agli immemori.
Body Language
Rientrato a Washington dopo un mese tra Roma, Firenze e Sardegna, ci siamo imbattuti nel video del Cavaliere rilanciato dai siti dei giornali italiani.
Non ci interessa entrare nel merito delle dichiarazioni espresse dall'ex premier Berlusconi nel corso dei 16 minuti di 'appellum cordis' al popolo italiano. O meglio alla platea di quelli che hanno dedicato il proprio tempo ad ascoltarlo. Ma soprattutto vederlo.
Perche' lo show di Silvio ha dimostrato alcune regole fondamentali della comunicazione audiovisiva:
1) non si puo' barare. Le telecamere sono impietose. Si possono usare chili di cerone, si puo' cercare di celare in qualche modo la calvizie con fintini e annerimento dello scalpo. Ma alla fine la pelle, piu' volte violentata da frequenti lifting, diventa un cascame. I pori sono in risalto. I 77 anni si rivelano in tutta la loro cruda evidenza. Nessun cerotto di abile truccatrice riesce a nasconderli.
2) La voce perde con gli anni il suo tono. Ne sanno qualcosa i cantanti professionsiti. Il comiziante di turno dovrebbe tenerne conto specialmente quando si avventura sui declivi della sparata a sangue freddo, fatta leggendo il gobbo. Il risultato rasenta la parodia e puzza di vecchio e forzato.
3) Quando molti anni fa un nostro autorevole amico durante un ballo in una dacia moscovita (mentre affontavamo con altri dirigenti dell'IRI qualche passo obbligato con alcune danzatrici), ci disse "Non hai piu' il fisico del ruolo'..beh...quella frase- come vedete- ci e' rimasta impressa nella memoria. Aveva perfettamente ragione.
Nessuno dei laudatores del signor Berlusconi si permette di dirgli: "Non hai piu' il fisico del ruolo. Percio' lascia il posto a qualche giovane pieno di energia."
Il video dell'ex presidente Barlusconi ci ha ricordato quei patetici vecchietti di Buenos Aires che nei giardini pubblici (tutti azzimati e vestiti di nero con tacchetto rialzato) improvvisano qualche passo di tango per raccattare una banconota dai turisti divertiti e crudeli.
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I MIEI OCCHI SONO
MOLTO LIMPIDI E CHIARI.
MEGLIO CHE TI
SCHIARISCI I TUOI !!
Il video dell'ex
presidente Barlusconi ci ha ricordato quei patetici vecchietti di Buenos Aires
che nei giardini pubblici (tutti azzimati e vestiti di nero con tacchetto
rialzato) improvvisano qualche passo di tango per raccattare una banconota dai
turisti divertiti e crudeli.
IL POVERO
VECCHIETTO SARAI TU.
NON LA PENSO COME
TE.
SONO CON
BERLUSCONI.
NON DESIDERO
RICEVERE PIU E-MAIL DA TE.
PERTANTO
CANCELLAMI DALLA TUA MAIL-LIST.
Guardare il futuro con occhi limpidi
Manifesto del Gran Maestro Gustavo Raffi per la ricorrenza del XX Settembre
Molte persone, di fronte alle incertezze del nostro tempo e a una crisi esistente che non è solo socio-economica ma valoriale, hanno scelto di guardare il futuro attraverso le cupe lenti della rassegnazione, ponendosi in balia degli eventi e dei potentati. Ma chi conosce l'Uomo sa che occorre reagire: l'Uomo libero può sempre trovare dentro di sé e nella relazione con gli altri la chiave per aprire la porta di un futuro luminoso. Solo ricercando nel profondo dell'essere umano e del suo mistero, si possono rinvenire le risorse per guardare al domani con fiducia, nonostante tutto.
Il primo strumento utile è la cultura, cioè la capacità di vedere la realtà, di coglierne l'essenza in uno sguardo di insieme, logico, coerente e simbolico. Uno sguardo capace di dare un senso al vissuto, di trovare soluzioni ai problemi, di saltare gli ostacoli che la vita mette sul cammino, di aprire varchi in quelli che sembrano vicoli ciechi, costruendo così una nuova coscienza civile e una storia aperta.
L'essere umano non è un'isola e trova il meglio di sé quando esce dalla gabbia del solipsismo e incontra l'altro. Un 'altro' in cui scopre quell'eguaglianza profonda che supera ogni diversità e rende l'estraneo familiare, Fratello del proprio tempo di vita e di ricerca. Scoprendo anche che nell'Italia in cui viviamo il male non è la fragilità delle Istituzioni ma la crisi delle coscienze, la fiacchezza di sentimenti, l'assenza di fede vera nella libertà. Sotto l'apparenza della libertà, domina l'animo del servo e il vuoto interiore. Non è questa la libertà che il XX Settembre 1870 annunciava.
Si può e si deve invertire la rotta, costruendo anche sulle rovine. Cultura e Fratellanza sono due strumenti con cui si può ancora cambiare il mondo. E costruire il Tempio dell'Umanità.
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Condivido
totalmente la riflessione del Gran Maestro Gustavo Raffi.
Aggiungo
che appartenere alla famiglia universale ci fa crescere.
La
tendenza degli esseri umani è quella di sottrarsi alla vita collettiva,
universale, cosmica, per vivere unicamente la propria vita personale,
individuale. Essi immaginano che rimanendo al riparo dagli uni e dagli altri
saranno protetti. Eh no, è un' illusione! Nell'isolamento interiore che essi si
creano, espongono la propria anima a tutti i pericoli. Anche se non si può
stare sempre con gli altri, occorre almeno essere con loro tramite il pensiero.
La
parola “unità” è la più profonda della Scienza spirituale, e in essa sta il senso
della nostra esistenza. La coscienza di appartenere ad un'unica famiglia – la
stessa per tutti – ci dà la certezza di fare qualcosa di grande. Tale grandezza
non proviene da noi, bensì dalla famiglia universale alla quale apparteniamo: è
questa famiglia a sostenerci e a salvarci dalla sensazione di povertà, di
solitudine, di inutilità e di vuoto, che a volte può impossessarsi di
noi.
Con
l'augurio che tutta l'umanità possa crescere con gli occhi limpidi come ha
mirabilmente titolato l'autore di questa auspicabile visione.
Prof.
Giuseppe Savazzi
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Molto bello.
Grazie Oscar di aver condiviso.
Grazie Gustavo delle parole ispirate.
In certi periodi se ne sente il bisogno, sia socialmente, sia a livello personale.
Un abbraccio,
Clark
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Molto bello.
Grazie Oscar di aver condiviso.
Grazie Gustavo delle parole ispirate.
In certi periodi se ne sente il bisogno, sia socialmente, sia a livello personale.
Un abbraccio,
Clark
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