Alberto
Pasolini Zanelli
Giorno dopo
giorno, ora dopo ora, la cronaca che da Nairobi raggiunge tutto il mondo
racconta ma non spiega. Sappiamo, ormai (ed è un brutto segno, perché indica
che l’attacco terroristico, anche se destinato a fallire in senso tecnico e a
trascinare nella tomba i suoi guastatori), che il colpo di mano si è
trasformato in battaglia, come pare fosse fin dall’inizio l’intenzione degli
organizzatori e dei mandanti. Mentre si continua a combattere, va avanti anche
la conta lugubre delle vittime, la brusca presa di contatto con una realtà che
per la maggior parte di noi è stata sorprendente mentre non era necessario che
lo fosse. Quando si parla di “terrorismo cieco” si ripete, il più delle volte,
un cliché distaccato dalla realtà. Il Kenya non fa parte dei campi di battaglia
tradizionali tra le organizzazioni terroristiche di stampo islamico e le forze
dell’ordine planetario. Pareva, tutt’al più, una retrovia.
E invece
l’assalto è avvenuto contro uno dei quartier generali. Lontana dalle prime
linee, e fino all’altro ieri dalle cronache, Nairobi è uno dei centri
nevralgici della resistenza all’assalto del terrore. Il Kenya non è un Paese
islamico: lo dimostra anche la sua storia recente, dalla conquista
dell’indipendenza poco più di mezzo secolo fa all’emergere in quello Stato
neonato di una classe dirigente che ha finito col produrre addirittura il
presidente degli Stati Uniti. I compatrioti di papà Obama hanno basi, linee
interne di collegamento, centri di addestramento per una forza internazionale antiterrore
e antiguerriglia. Non è un caso che vi sia stanziata una importante unità
antiterroristica israeliana, è intuibile una non transitoria presenza
americana, si sa che dalle coste keniane è partita la lunga e lungamente
“coperta” offensiva contro il fenomeno della pirateria, in sé “apolitico” ma
locato strategicamente in un’area nevralgica. I pirati erano e sono in gran
parte “frange” di disperati alla ricerca di facile bottino, ma la loro presenza
segnalava una più vasta offensiva destabilizzante in un angolo tutt’altro che
morto della Terra ma vicino anzi ad alcune delle sue arterie commerciali più
essenziali. I pirati si imbarcavano quasi tutti, e non è un caso, dalla
Somalia, cioè da uno “Stato fallito” e dunque da una regione del mondo che
aveva perduto o rigettato ogni forma politica e legale di controllo. Ma della
Somalia sappiamo anche che vi è in corso una guerra ricca di obiettivi
strategici, un insediamento massiccio e senza diaframmi statali dell’estremismo
jihadista con il suo volto più scoperto. Mogadiscio ha rischiato più volte di
diventare la capitale nominale di uno Stato inesistente e trasformato in
struttura semiplanetaria di base del terrorismo e delle strategie di conquista
del fondamentalismo islamico e jihadista. Nelle acque dell’Oceano Indiano
questa controffensiva ha avuto successi tanto più significativi quanto deliberatamente
taciuti o minimizzati.
Ed è contro il
Kenya come base arretrata della lotta al terrore che i terroristi hanno lanciato
oggi la loro rappresaglia più o meno “firmata”. I Signori della Guerra
accampati in Somalia vi sono stati affrontati da iniziative militari condotte
direttamente dal governo e dalle forze armate keniote, in prima fila in uno
sforzo internazionale per respingere da Mogadiscio e da altri maggiori centri
somali le milizie islamiste conosciute sotto il nome di al Shabab, che vi aveva
trovato un’“oasi” e una centrale strategica paragonabili a quella instaurata un
quarto di secolo fa dalle medesime forze nell’Afghanistan dei talebani. Il
“cervello” dell’idra, con basi per lanciare operazioni di guerriglia, per
esempio nel Darfur e nel neonato Stato del Sud Sudan. Con obiettivi a più lungo
raggio, inoltre, si cerca di ostacolare l’emergere di un’area di economie
emergenti geograficamente estese da Singapore all’Africa Orientale con
epicentro in India. Il tipo di azioni, la somiglianza dei bersagli e delle
tattiche rivela impressionanti coincidenze anche a largo raggio: all’una
estremità il Mali, dove l’offensiva dei jihadisti è stata, forse solo
momentaneamente, bloccata dall’intervento militare francese, all’altra nell’Oceano
Indiano, passando per la Libia, il cui governo è sempre di più attaccato ed
esautorato da forze ribelli. Questo vasto terreno si offre anche come terreno
di coltura di nostalgie apertamente espresse per un Califfato: parole e musica,
citazioni precise dai proclami e dai programmi di Osama Bin Laden. Un nome che
dice molto. Tranne che agli immemori.