La notizia della morte di Giuseppe ci ha raggiunto mentre stavamo su un traghetto diretto a Olbia.
Facile e abusato dire che non siamo uguali neanche di fronte alla morte. Ci sono quelli che hanno la fortuna (si fa per dire) di staccare la spina all’età giusta. Altri invece affrontano una lunga agonia ed invocano la fine.
Ci sono quelli che, a parte le frasi di circostanza, non lasciano alcunchè dietro di sè. Altri il cui ricordo ti assale nei momenti più impensati e ti riempie di tristezza.
Giuseppe era uno di questi. Almeno per chi lo conosceva. Aristocratico pugliese definito il ‘barone rosso’ per le sue simpatie di sinistra stranamente reinterpretate negli Stati Uniti, dove viveva da decenni, da sussulti di insofferenza razziale, Giuseppe era un vero signore. E te ne accorgevi subito da come si vestiva e si muoveva. Sempre molto elegante nonostante l’età avanzata con quel quid in più che solo coloro che godono di un’educazione e di una cultura metabolizzata senza sforzo riescono a dimostrare.
Giuseppe era ‘disincantato’ nei confronti del suo prossimo.
Ma il suo disincanto era speciale. Giorni fa un giovane medico romano commentando il comportamento di un suo famoso collega ci ha dato un’interessante chiave di lettura.
“Noi medici siamo a contatto con l’umanita’ ammalata. Ma chi ogni giorno si trova a fronteggiare la morte è il neurochirurgo. Ti apre il cranio, cerca di estirpare tumori, ematomi dovuti a incidenti, richiude spesso il tutto perchè non c’è più nula da fare. Ed ogni giorno deve recarsi nella cosiddetta ‘stanza del pianto’ a dire a parenti dilaniati dall’apprensione e dal dolore che per il loro caro non c’è speranza. Ogni giorno così. Questa è la loro vita. Non c’è da meravigliarsi se poi nei rapporti quotidiani con la gente un neurochirurgo assume atteggiamenti singolari.”
Giuseppe ha lavorato per anni in Svezia, Italia, America. Il richiamo dell’Italia per lui è stato molto forte. Al punto che ha deciso di tornare a Roma lasciando una posizione prestigiosa negli Stati Uniti. Giusto il tempo di rendersi conto che nel Bel Paese non c’era futuro per lui, giusto il tempo per innamorarsi di una giovane dottoressa, Erminia, che, dopo il primo incontro in corsia, ha deciso che quello sarebbe stato l’uomo della sua vita. E cosi e’ stato.
Gli ultimi venti anni della vita di Giuseppe sono stati caratterizzati da un costante dialogo di affetto professionale con quella intrepida mogliettina che aveva trovato il tempo di mettere al mondo un figlio, Alexis, bello, simpatico e pilota di una nota compagnia aerea.
Poi la metastasi che gli corrodeva ormai ogni funzione vitale, mentre la testa restava incredibilmente lucida.
Pochi giorni prima della nostra partenza per l’Italia siamo andati a trovare Giuseppe in una stanza del George Washington Hospital del Distretto di Columbia. Il nostro amico professore, rifiutava il cibo anche perché tormentato da continui attacchi di nausea.