di Alberto
Pasolini Zanelli
Era la stagione
dei golpe, nel mondo, quando toccò, quarant’anni fa, al Cile. Accadde in
settembre, un 11 settembre: una “rima” di calendario di cui qualcuno,
naturalmente in America, ha trovato modo di accorgersi. Ma accadde in un mondo
che era un altro mondo, non solo diverso ma neppure paragonabile a questo:
esisteva ancora l’Unione Sovietica, la Cina era maoista, era vivo Peron, in
giro per il pianeta c’era ancora chi credeva nella Rivoluzione Socialista e la
tentava, ed esistevano dunque anche i “colpi di Stato dell’Ordine”.
Quello di
Augusto Pinochet a Santiago fu forse il meno inatteso. Tecnicamente esso si
collocò a metà strada fra un “capolavoro” del genere, quello dei colonnelli
greci che nel 1967 avevano conquistato tutto il potere in poche ore e quasi
senza spargimento di sangue, e il “fallimento” dei generali spagnoli, che
nell’estate del 1936 si levarono in armi contro la Repubblica del Fronte
Popolare ma non riuscirono a travolgerla e dovettero occupare il Paese palmo a
palmo in una guerra civile durata più di tre anni. Violenza ci fu naturalmente
in tutte queste “sollevazioni”, compresa quella cilena. Al suo debutto Pinochet
versò sangue, già nel gesto simbolico dell’attacco militare alla residenza del
capo dello Stato, il fuoco su Allende, fino alla sua morte, forse suicidio col
mitra regalatogli da Fidel Castro. Poi venne il peggio: eliminazioni sommarie
“a caldo” di diversi esponenti della struttura di potere delle sinistre, la
barbarie spettacolare delle reclusioni di massa negli stadi (è curioso: anche
Castro aveva festeggiato così la sua presa di potere all’Avana, con processi,
morte e circensi).
La Storia ha già
giudicato, ma se si ricorda ancora oggi, in un altro mondo, il golpe di
Pinochet e il suo regime è soprattutto perché quest’ultimo fu diverso da tutti
gli altri del suo genere e della sua parte politica. Di solito i colpi di Stato
della Destra avevano per modello il programma generico di girare all’indietro
la ruota della Storia, reazionari dunque nel senso più proprio del termine.
Augusto Pinochet, dittatore di Destra, condusse e impose una “rivoluzione”.
Cercò, con successo e senza scrupoli, di spingere il Cile in avanti, di
modernizzarlo. Era, anche nel breve periodo di potere di Salvador Allende, una
società tradizionale, corporativa, statalizzata. Pinochet si impegnò fin dal
primo giorno a trasformarlo in una nazione integralmente capitalista e rivolta
al futuro. Egli non masticava molto di Economia: sapeva quel che voleva, ma non
come arrivarci. Per questo si rivolse non a degli altri gallonati sudamericani
ma a dei giovani economisti, i famosi “Chicago boys” della scuola liberista di
Milton Friedman. Si mise nelle loro mani, gli offrì il Cile come terreno di
esperimento delle loro teorie e si limitò a fare da gendarme, impedendo con la
forza quelle “interferenze” della politica nel gioco economico che in una
democrazia sono evidentemente inevitabili, dalla libertà sindacale, che implica
il ricorso allo sciopero, alla competizione elettorale, che spinge i partiti a
gareggiare in promesse. Sotto Pinochet i cileni non poterono né scioperare né
votare: dovettero ingoiare medicine amare come il blocco dei salari ai
dipendenti dello Stato in un’epoca di altissima inflazione. E si aprì, contro
le sue tradizioni, a una circolazione quasi incontrollata dei capitali
stranieri.
Il dittatore
tenne saldo il timone e quando se ne andò, con “buona grazia” non del tutto
spontanea (un referendum indetto a sorpresa e sorprendente nel suo esito
negativo), riconsegnò i cileni alla democrazia, dando loro in dote un Paese
trasformato. Usò i metodi dei generali golpisti nella vicina Argentina per
imporre riforme ispirate a modelli anglosassoni e semplicemente impensabili
nell’ambiente ibero-americano. Insomma quel dittatore fece cose molto cattive e
qualcuna molto utile. Visto quarant’anni dopo egli cambiò l’economia in senso
moderno ferendo la democrazia ma in un certo senso e paradossalmente
rafforzandola, come hanno dimostrato dopo il suo “ritiro” e ben prima della sua
morte fisica tutte le elezioni che hanno visto alternarsi i partiti ma nel
complesso prevalere una sinistra che restaurò sì la democrazia ma non lo
statalismo tradizionale tinto di socialismo. Il processo morale è stato fatto e
anche quello giudiziario. Il giudizio politico, storico, può forse prescindere,
per il momento almeno, dal richiamo a quei valori di affidarsi invece a una
statistica. L’America Latina ha conosciuto in quasi un secolo pressappoco
seicento dittatori militari, 599 dei quali si sono rivelati degli inetti o dei
disastri. Al Cile è toccato in sorte il seicentesimo.