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Arma nucleare nella fondina


Alberto Pasolini Zanelli

Per ora è soltanto un’ipotesi, ma le sue dimensioni ricordano sotto molti aspetti una scelta come quella che le due Superpotenze dell’epoca furono chiamate a decidere nei primi anni della Guerra Fredda: quando i dirigenti degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica dovettero decidere su una “proposta” che, se accettata, avrebbe portato la politica mondiale a un equilibrio completamente diverso, e peggiore, di quello odierno. Fu quando i dirigenti del Cremlino ma soprattutto il presidente americano George H. Bush esaminarono la possibilità reale di estendere al di là di ogni limite i rispettivi arsenali nucleari. L’ipotesi era contenuta nella proposta dei massimi organi militari di tornare a permettere l’uso della Bomba al di là delle ipotesi sul tavolo di quel momento, di quando cioè le reazioni contemplate a un atto aggressivo avrebbero potuto uscire dai limiti fino a quel momento imposti. Da Washington il ministro della Difesa Dick Cheney si pronunciò in favore della strategia più estrema: “Sarebbe una suprema follia di rinunciare agli strumenti che avrebbero potuto garantire un mondo meno minaccioso”. Se la Casa Bianca avesse approvato, la storia avrebbe potuto essere tragicamente diversa”. Ma alla Casa Bianca abitava appunto George W. Bush, che si stava preparando a una visita nell’Europa orientale, a cominciare dall’Unione Sovietica. Ma egli mise il suo veto, dicendo fra l’altro: “Non voglio apparire minaccioso o provocatorio. Non voglio ferire Gorbaciov in un occhio”. La “frontiera” rimase: una risposta nucleare sarebbe stata accettabile solo di fronte a un attacco nucleare. A rendere possibile tale scenario apocalittico furono i progressi contenuti in una serie di accordi o di dialoghi fra il presidente Reagan e i dirigenti della svolta in corso al Cremlino, che resero possibile, fra l’altro, la riunificazione della Germania, come cardine dell’abolizione della Guerra Fredda.

Una situazione in parte simile si presenta oggi. Il presidente Trump ha ricevuto da pochi giorni una proposta dei comandi militari Usa di allargare di nuovo la casistica di una risposta nucleare non solo nel caso di violazioni o minacce atomiche, ma anche di altri generi di grave provocazione. Una svolta concepibile solo come cancellazione di una “frontiera” che, in conseguenza di quegli accordi, ha portato finora a una riduzione dell’arsenale nucleare Usa dell’85 per cento rispetto alle proporzioni degli anni iniziali della Guerra Fredda. La “distensione” andò avanti, sia pure con pause e difficoltà, fino all’ultimo predecessore di Trump, Barack Obama e dei successori di Gorbaciov, incluso Vladimir Putin e nonostante le tensioni nel Medio Oriente e altrove che potrebbero culminare nella inclusione delle armi biologiche e, all’altro estremo, di una risposta totale alle minacce cibernetiche, cui molti americani sono concepibili in conseguenza della ipotesi di una interferenza da parte russa con le ultime elezioni presidenziali. A decidere dovrà essere il vincitore a sorpresa di quella competizione, Donald Trump molto meno esperto di quanto non fosse allora George H. Bush, che fra l’altro era stato per anni capo della Cia.

Trump è molti versi una incognita, è stato considerato a turno eccessivamente benevolo verso Mosca oppure un “falco” fra i più intransigenti. L’ultima occasione che potrebbe spingerlo a orientamenti estremi sono naturalmente le minacce della Corea del Nord, ma le tradizioni dei “falchi” portano a considerare la Russia il “vero nemico”. A giustificare in parte gli allarmi è una realtà: i negoziati per una ulteriore riduzione dei limiti globali agli armamenti hanno subito da qualche tempo importanti riduzioni di ritmo, mentre tende ad allargarsi l’area definita di “circostanze estreme”. Rischia di diventare accettabile, come ipotesi, il rientro in scena degli strumenti di rappresaglia in caso di tensioni estreme. Le incertezze in proposito risvegliano in alcuni gli allarmi del 1989, di cui quel presidente Bush seppe ridimensionare con il suo sangue freddo nutrito di competenza. Di Trump non sappiamo, al termine del primo anno di Casa Bianca, i limiti e i termini di linguaggio con cui Bush seppe frenare gli impulsi del suo ministro della Difesa Dick Cheney. Lo “Stato Maggiore” di Trump è stato finora soggetto a continue “revisioni” di idee e soprattutto di persone. Nella migliore delle ipotesi l’attuale presidente potrebbe sentire il bisogno di mescere decisioni e parole realistiche ma soprattutto tranquillizzanti.