Alberto Pasolini Zanelli
Il 2018 comincia in anticipo. Si
direbbe, anzi, che ha fretta. Ma non di concludere o fare progressi sulla via
della pace o almeno della distensione, bensì il contrario. Il “via” ufficiale
ha poco più di due giorni, l’inaugurazione è avvenuta in Siria, proprio nel
Paese che avrebbe avuto il diritto e i motivi di “riposarsi” dopo cinque anni
abbondanti di guerra. Il silenzio è durato qualche giorno. L’ha interrotto la
Turchia, i cui cannoni hanno ricominciato a rombare, in un’area prevalentemente
abitata da curdi, alla frontiera settentrionale fra la Siria e la Turchia. L’annuncio
è stato dato dal governo di Ankara, che ha specificato, non sorprendentemente,
che l’obiettivo erano e sono i guerriglieri di una delle fazioni curde, quella
accusata di voler approfittare della situazione momentaneamente favorevole per
rilanciare la rivendicazione di uno Stato e di un popolo privo di uno Stato e
di un territorio: quella che nella guerra siriana ha combattuto contro
l’esercito di Damasco, alleata però anche – almeno così dice Ankara – con un
settore “fuori legge” di inclinazioni comuniste, temporaneamente famoso e
guidate da un leader ricercato da governi un po’ da tutto il mondo.
Contemporaneamente ha aperto la
bocca l’America. Esponenti militari e politici hanno spiegato che è in gioco un
piccolo territorio, quasi l’unico in cui il potere di Damasco non è stato
ancora ristabilito ed è retto da una fazione di “curdi di Siria”. L’iniziativa
si è aperta formalmente sotto il nome di “Operazione Ramo d’Ulivo” e ha colpito
finora due città siriane controllate da una fazione curda, con l’obiettivo
evidente di stabilire una “zona di sicurezza” contro la “concorrenza” ma anche
contro l’esercito regolare siriano. Missili sono stati lanciati dal Nord della
Siria contro una città turca. Le vittime sono finora poche in entrambi i campi
e non sono chiari gli obiettivi. Gli unici a tentare di spiegarli sono gli
americani, che sembrano voler approfittare dell’occasione per rinvigorire la
propria presenza militare. Washington li considera terroristi affini a Isis e ad
Al Qaida, ma critica anche la reazione di Ankara. La Turchia, che è membro
della Nato, ha risposto per le rime accusando l’America di “aiutare i
terroristi in Siria” e dunque le operazioni militari Usa che hanno lo scopo di
assicurare la pace, la sicurezza e l’integrità territoriale della Siria.
Posizione condivisa, almeno diplomaticamente, dall’Egitto e dall’Iran.
Ma l’avvenimento del giorno non è
questo: è una serie di annunci e di minacce che riportano in prima piano l’arma
nucleare, che era stata tenuta nell’ombra dai giorni di un accordo fra Stati
Uniti ed Unione Sovietica e soprattutto dopo la distensione russo-americana fin
dai tempi di Gorbaciov e di Reagan. È il Pentagono a precisare una nuova strategia
atomica, sottoponendola alla prevista ratifica della Casa Bianca, che è attesa
quasi ufficialmente e dovrebbe confermare l’intenzione proclamata da Trump di cancellare
l’impegno degli Stati Uniti a non fare uso di armi nucleari solo come reazione
ad attacchi del genere da parte di altri Paesi. Per decenni gli Stati Uniti
hanno minacciato il “primo uso” dell’atomica solo in circostanze molto strette
e limitate, come ad esempio l’uso di armi biologiche contro l’America. Il nuovo
documento allarga invece le misure e le occasioni, includendo ora azioni ostili
che minaccino le linee di comunicazione in aree vulnerabili ai cyberattacchi.
La nuova strategia ha un nome, Nuclear Posture Review, decisa dal Pentagono e
ratificata dalla Casa Bianca. L’annuncio realmente importante di questa
“rivoluzione” è però quella dedicata non ai conflitti locali tra siriani, curdi
e turchi, bensì, per la prima volta in oltre vent’anni, alle grandi potenze. La
Russia e la Cina sono citate e motivate con i progressi dei rispettivi arsenali
(oltre naturalmente alle dirette minacce della Corea del Nord). Il documento
specifica che “dobbiamo guardare negli occhi la realtà e vedere il mondo com’è,
non come desideriamo sia”. La citazione cancella esplicitamente i giudizi e le
intenzioni espresse negli otto anni della presidenza Obama, ma anche in alcune
passate gestioni della Casa Bianca. E corrisponde al linguaggio più volte
espresso da Trump nel suo primo anno di presidenza. Si tratta dunque di un particolare
che corrisponde a una nuova strategia globale. Indicazione che la gestione
attuale della politica estera e militare coincide con l’annunciato progetto di
costruire nuovi e più moderni ordigni nucleari e di allargarne gli obiettivi.
Capovolgendo gli accordi che dovrebbero avere messo il sigillo alla Guerra
Fredda.
Pasolini.zanelli@gmail.com