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“La Cina è vicina”


La recente accelerazione dei rapporti commerciali fra la Cina e numerosi Paesi europei resuscita fra l’altro uno slogan di mezzo secolo fa, che era però espressione di una illusione in gran parte unilaterale: “La Cina è vicina”. Era una novità affascinante quanto illusoria: la Cina era ancora, sia pure a conclusione di un ciclo, quella di Mao e della Rivoluzione Culturale, immagine di una fase di terrore (nella realtà locale) e di una illusione, come modello da imitare per sconvolgere tutto e prendere il posto nell’Unione Sovietica nei sogni, nelle paure, addirittura nel modello di civiltà. A parlare di Cina c’erano degli illusi furibondi interessati a un incubo e dimentichi della realtà. A una maggioranza degli italiani la Cina era un modello, alla quasi totalità dei cinesi l’Italia era sconosciuta. Con un’eccezione, naturalmente, al nome e al mito di Marco Polo. Eravamo stati insieme in una guerra mondiale, sia pure su fronti contrapposti e, senza memorie successive a quel formidabile esploratore e alle scarne memorie di rapporti commerciali molto simili a esplorazioni.
Adesso gli esploratori sono del calibro dei capi di Stato, accolti con calore e speranze, in parte sul punto di essere ratificate dalla realtà e già tinte della gelosa ostilità altrui. Leggiamo di minacce di ritorsioni americane agli accresciuti rapporti fra Pechino e Roma (e Berlino). Quella che rischia di aprirsi è fra l’altro una “guerra dei formaggi”.
In realtà ciò che è in corso è un progetto commerciale che promette (o rischia secondo i punti di vista e gli opposti interessi) di cambiare il volto del pianeta, per ora soprattutto mercantile. Come tutti gli eventi e i processi storici, una realtà concreta, limitata ed accurata genera una visione e un titolo. Ancora ieri l’altro dicevamo che la Cina “era vicina” e non era vero: era un sogno o un incubo, la terra natale di una rivoluzione radicale quanto nessun’altra. I cinesi agivano e noi procuravamo lo slogan. Oggi siamo in due ad agire e di slogan ce n’è uno ambizioso quanto concreto, dagli echi millenari. I reggitori di Pechino sono impegnati in una resurrezione che ha il nome di una impresa commerciale: la Strada della Seta. Fu una realtà ma tanto remota da essere diventata una storia da evo antico. La Cina è guarita dalla sua debolezza e ha resuscitato i propri sogni o meglio si sforza di resuscitare le proprie forze.
La Strada della Seta era una capacità di ambizioni millenarie, faceva di quell’impero remoto una via di comunicazione con il resto del mondo, compresi gli altri, i nostri imperi. Carovane di cammelli percorrevano migliaia di miglia per vendere e comprare e insomma scambiare, valicando i deserti immani dell’Asia Centrale, portandoci porcellane e ricevendo Marco Polo. La Cina era allora una grande potenza, anche se così lontana da non farci sentire il suo peso. Ancora dopo il nostro medioevo era probabilmente – lo scopriamo adesso – più prospera di noi, almeno secondo la moderna misura del reddito pro capite.
E poi crollò, in fretta, per motivi che non sono stati ancora del tutto catalogati ma che comprendevano malattie interne e traumi da contatti stranieri. È rimasta famosa una frase di Napoleone che era constatazione e monito all’Occidente: “Quando la Cina si sveglierà ce ne accorgeremo”. La Cina in realtà non aveva ancora finito di addormentarsi e dunque di sognare. Negli anni attorno all’angosciosa e vergognosa disfatta della Guerra dell’Oppio e della susseguente colonizzazione rapida, impropria e senza confini la massa dei cinesi sognava come drogata, i suoi imperatori si inchinavano in realtà a dei “proconsoli” europei. Ma gli intellettuali, i sognatori, i nostalgici si rifugiavano, in mancanza di meglio, in un genere di sogni che oggi chiamiamo fantascienza. Questo genere letterario nasce attorno alla svolta fra due secoli e non riguarda visitatori per altri pianeti bensì inventa e racconta guerre. Guerre e vittorie, rivincite sui campi di battaglia, sui mari, ai tavoli dei negoziati. Guerre e paci, trattati contrassegnati dalla forza, nuovi disegni planetari. Una moda che passò e fu dimenticata anche in patria e totalmente in Occidente. Alcuni fra i suoi testi riemergono dalle biblioteche e raccontano la Cina non com’era ma come sognava di essere durante l’evo delle umiliazioni. Quei volumi non soltanto le nuove frontiere nel mondo ma anche le aperture. E vi si ritrova spesso una pretesa inaspettata: nel dettare le condizioni di pace agli sconfitti da quella super Cina gli strateghi degli imperatori di Pechino includono l’Adriatico. Allora un remoto golfo del sogno, ma anche una concreta ambizione: aprire ai traffici con l’Europa un’alternativa ai deserti battuti dai cammelli: una apertura navale che accorci le distanze, apra nuove strade, accorci i percorsi terrestri. Perché l’Adriatico? Perché si apre con uno Stretto e penetra la terraferma europea, dalle coste dell’Albania fino al golfo conclusivo, alla terra delle Ragazze di Trieste. Da lì la strada è corta per Vienna e l’Europa Centrale. Era un sogno di frustrati e sognatori. Oggi è una concreta parte di una strategia globale di una Superpotenza soprattutto economica. Chissà in che misura questo precedente “letterario” è tornato alla mente dei diplomatici e degli statisti di Roma, dei reggitori di un Paese “provinciale” che nelle ambizioni di una Superpotenza remota ritrova una preziosa funzione strategica e sperati vantaggi immediati ma anche un recupero e un ritorno. La Cina adesso si prepara a mandarci i suoi Marco Polo.
Pasolini.zanelli@gmail.com