Giancarlo Dotto per il "Corriere dello Sport" (dagospia)
I rigori non sono crudeli. Di più, sono la brutale necessità di chiudere con una soluzione accettabile storie che altrimenti non avrebbero fine. Ci premiano i rigori. Ci premia Gigio, il più forte portiere al mondo. Ci premia il l’Infallibile dal dischetto, Jorginho, un brasiliano che canta l’inno di Mameli meglio di qualunque ragazzo nato tra Bolzano e Pantelleria. Assurda la calma con cui calcia il rigore decisivo, dopo il solito saltarello a darsi il tempo. Ci premia l’assurdità crudele del calcio. Viva l’assurdo.
Ci hanno fatto un mazzo tanto, Busquets e compagni, ma in finale andiamo noi. Dominati in lungo e in largo, annichiliti per lunghi tratti, tecnicamente, fisicamente e tatticamente, ma in finale andiamo noi. Non si sa come, ma andiamo noi. Con qualche rossore, ma andiamo noi. Stremati, ma andiamo noi. L’esultanza di Gianluca Vialli, alla fine di tutto, sotto la tribuna che scoppia d’azzurro, è la nostra. Aspettando di sapere se sarà Inghilterra o Danimarca, Harry Kane o il fantasma attivo di Eriksen.
L’abbiamo fatta franca anche stavolta. Questo conta. La storia di sempre. La pistola di Indiana Jones e il colpo secco a bruciapelo che stronca gli inutili arabeschi dello spadaccino. È l’Italia, bellezze. Basta con l’equivoco del bel gioco. Belli siamo finché la pochezza altrui ci consente di esserlo ma, appena la faccenda si fa dura, noi torniamo quelli di sempre. Il nostro calcio di trincea, quello che ci salva e ci distingue e qualche volta vince, da sempre. Il gruppo che si trasforma in una bestia da combattimento, non molla, un portiere che para le mosche oltre che i rigori, l’applicazione feroce e sprazzi isolati di talento. Questa volta è Chiesa. È sempre Chiesa. Il nostro talento più smagliante, inverosimilmente e masochisticamente tenuto in panchina nelle partite iniziali.
L’altra magnifica notizia è che da oggi Luis Enrique tiferà Italia. Lo ha promesso e, uomo d’onore, lo farà, anche se dovrà prima ingoiare il rospo, quanto amaro lo sa solo lui, di una partita che avrebbe dovuto più volte stravincere nel tempo a disposizione. Esito per lui infausto, specchio feroce dell’astratta bellezza del calcio che l’asturiano insegue con incrollabile fede. Si beccherà anche stavolta tanti complimenti e un pugno di cenere, chi sa se rimpiangendo l’assurda scelta di lasciare Sergio Ramos a casa.
Perché i giovani sono belli, sono virtuosi, ma non vincono competizioni come queste. Guarda caso, a salvarlo provvisoriamente, Luis Enrique, a dieci minuti dalla fine, è Morata, il cecchino che aveva tenuto in panchina per sbizzarrire ai massimi livelli il suo calcio flou, senza ruoli e senza identità riconoscibili, a cominciare dal falso 9. Un monumentale Dani Olmo, capace di surfare come pochi sull’erba, almeno fino a quando non falla il rigore decisivo. Lui e poi Morata. Che si ricorda, buon per noi, della moglie italiana che lo aspetta a casa con il mattarello.
Assurdo tutto, anche il cocktail di emozioni. Rumore, tanto rumore avrebbe cantato Raffaella. Rumore, quello bello di una volta a Wembley che sale dalla pancia dei sessantamila che se ne infischiano della variante delta su editto di Boris Johnson, che la regina sia con lui. La gente a mucchi, mascherine addio, abbracci e baci si sprecano. Passato e passioni che tornano con l’unica ambizione, quella di vivere. Negare per un anno e mezzo alle folle di essere folla e, nella folla, poter vivere 90 minuti di follia è stata una crudeltà di cui capiremo l’enormità solo quando più non ci saremo.
Pochi minuti e il rumore diventava terrore. Tanta emozione, se la paura è emozione. Ci vuole un tasso di patriottismo e forse anche di alcolismo notevole per negare l’evidenza e cioè che la Spagna, per novanta minuti e tutto il primo tempo supplementare, ci ha nascosto la palla, oggetto indispensabile anche nel calcio futuristico di oggi.
Non ci abbiamo capito nulla, in campo e in panchina e, senza capirci nulla, abbiamo fatto quello che sappiamo fare meglio da sempre, difenderci. Chiellini e Bonucci in testa, fin lì storditi dalle talentuose zanzare iberiche. Le furie di Luis Enrique non erano rosse stavolta ma bianche e pure leggiadre, tenute insieme dal mastice dei vecchi. Il compasso ispirato di Busquets, la personalità di Jordi Alba e Azpilicueta. Per nostra fortuna e l’intercessione di qualche Beata Vergine con una scarsa propensione a praticare il concetto un po’ volgare che la palla, alla fine, va buttata in rete.
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