Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 18 luglio 2021
Dopo la più grave ed imprevedibile crisi del dopoguerra, è ormai opinione condivisa che l’economia mondiale sia spinta da un potente motore turbo. Questa constatazione emerge dai più recenti dati statistici e dalle più raffinate previsioni.
È tuttavia doveroso riflettere sulle condizioni necessarie per evitare che un possibile non accurato funzionamento di questo turbo produca incontrollate turbolenze.
Nell’anno in corso l’economia mondiale aumenterà del 6,1% e vedrà come protagoniste tutte le grandi aree del pianeta, con una modesta differenza fra i paesi emergenti e quelli industrializzati. Tra questi primeggerà la Cina, che crescerà più dell’8,5%.
Le ragioni della rapidità della ripresa sono ben note: un sostegno pubblico all’economia senza precedenti, tassi di interesse estremamente bassi, un’enorme riserva di potere d’acquisto (accumulata dai consumatori nel periodo di crisi) e una ripresa del commercio mondiale, a dispetto di tutte le tensioni politiche.
Non ho dubbi sull’esattezza di queste previsioni per l’anno in corso ma, nello stesso tempo, dobbiamo riflettere sulle turbolenze che possono interrompere questo cammino così promettente.
A livello mondiale il primo punto interrogativo riguarda naturalmente l’andamento della pandemia, che ha guidato gli alti e bassi dell’economia nei quasi due anni che abbiamo alle spalle.
La seconda possibile turbolenza nasce dal rischio di inflazione che, negli Stati Uniti, raggiungerà quest’anno una cifra attorno al 4%.
Un livello non preoccupante se temporaneo, come è autorevole previsione da parte della maggioranza degli esperti e delle autorità monetarie ma che, a mio parere, non sarà invece facile da controllare, dato il deficit del bilancio federale senza precedenti, il diffuso aumento dei prezzi di molte materie prime e la scarsa disponibilità di prodotti di importanza vitale per ogni settore dell’economia, a cominciare dai semiconduttori.
Non sarà un esercizio facile riequilibrare questa situazione senza porre mano alla crescita dei tassi di interesse. Il che avrebbe non solo la conseguenza di frenare l’economia americana, ma anche di provocare conseguenze simili in Europa.
Se tuttavia, come ha deciso la Commissione Europea, ci si pone il traguardo di ridurre del 55% le emissioni entro il 2030, bisogna nello stesso tempo costruire una struttura scientifica e mettere in atto una politica industriale in grado di rendere possibile il raggiungimento di quanto ci si propone.
Non possiamo porre sulle spalle delle nostre imprese pesi che esse non sono certamente in grado di sopportare, se i due giganti con i quali siamo in concorrenza si pongono obiettivi che implicano costi infinitamente inferiori ai nostri.
Non possiamo essere i leader del virtuoso e necessario processo di decarbonizzazione della nostra economia solo con decreti che proibiscono l’uso di strumenti inquinanti (siano essi dedicati al trasporto o al riscaldamento), senza una concreta strategia che sostituisca quello che da noi viene proibito e che da altri si continua a produrre a costi infinitamente inferiori.
In Italia i sussidi erogati dal 2010 al 2020 per il solare e l’eolico sono ammontati a 130 miliardi di Euro e, nell’anno in corso, supereranno gli 11 miliardi.
Questa virtuosa ma costosa energia verde è stata tuttavia prodotta con apparecchiature quasi esclusivamente fabbricate in Cina. Non possiamo ripetere lo stesso errore nei confronti della futura necessaria rivoluzione globale dei nostri consumi e dei nostri sistemi economici.
Considerando che l’Europa produce meno dell’8% delle sostanze che inquinano il pianeta, bisogna evidentemente tenere conto di cosa avviene per il restante 92%! E nemmeno possiamo pensare di imporre ai nostri consumatori aumenti dei prezzi non socialmente sopportabili.
Teniamo inoltre presente che le quotazioni del petrolio stanno quotidianamente crescendo in conseguenza dell’aumento della domanda e ancora più cresceranno in futuro se continuerà il calo dell’offerta causata dal crollo degli investimenti.
Voglio terminare queste riflessioni ricordando che, in Francia, la rivolta dei gilet gialli è scoppiata in conseguenza dell’aumento di pochi centesimi del prezzo del diesel. Si tratta di una campana che suona per tutti e non solo per i francesi.
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