FEDERICO RAMPINI per il Corriere della Sera
Di fronte alla variante Omicron c'è una parte del mondo che ha difese molto più efficaci delle nostre: è l'Estremo Oriente. Un caso a sé stante è la Cina, con i suoi metodi autoritari. Ma fior di Paesi democratici e rispettosi dei diritti umani come Giappone, Corea del Sud e Taiwan, continuano a esibire dati di mortalità da Covid microscopici rispetto ai nostri.
Ogni tanto si parla di qualche «ondata» di contagi anche in quei Paesi, ma i loro numeri percentuali sono frazioni minuscole e pressoché invisibili in confronto al resto del mondo. Dopo quasi due anni di pandemia, questa è l'unica eccezione costante, che ha retto a tutte le prove stagionali. I numeri del successo asiatico sono impressionanti, sbalorditivi per chi continui a illudersi che l'Occidente sia sinonimo di modernità e progresso. Il Giappone con 126 milioni di abitanti ha avuto 1,7 milioni di contagi e 18.363 decessi cioè 146 morti per ogni milione di persone.
Ancora meglio ha fatto la Corea del Sud: con una popolazione di 51 milioni ha raggiunto 460.000 casi positivi dall'inizio della pandemia e 3.705 decessi, cioè 73 morti per milione di abitanti. Meglio di tutti Taiwan (24 milioni di residenti) che con appena 848 decessi ha una mortalità pari a 36 per milione. L'Italia, che è abbastanza rappresentativa della media occidentale, con 134.000 vittime (2.222 per milione di abitanti) ha una mortalità quindici volte superiore al Giappone, trenta volte quella sudcoreana, sessanta volte Taiwan. Questi non sono piccoli scarti percentuali, sono dislivelli abissali fra noi e loro.
Se in Occidente avessimo avuto la capacità di contenimento dimostrata a Tokyo, Seul e Taipei, non staremmo parlando di una tragedia. Eppure non esiste qui da noi un dibattito pubblico sul «modello asiatico». Perché? Una parte della spiegazione sta in quella particolare forma di provincialismo alimentata da alcuni secoli di dominio occidentale sul pianeta. Continuiamo ad avere un deficit di informazione, perfino una mancanza di curiosità, perché siamo condizionati da un complesso di superiorità, ormai del tutto anacronistico e infondato.
Un'altra spiegazione chiama in causa la Cina. Per dimensione e potenza, la Repubblica Popolare ha invaso lo spazio immaginario e ha messo in ombra i suoi vicini. Xi Jinping ha catturato tutta la nostra attenzione: prima quando ha nascosto la pandemia e ha mentito sulle sue origini; poi quando ha dispiegato la potenza del regime per lockdown coercitivi e a tratti feroci. Anche l'approccio cinese in apparenza sembra coronato da successo, ma la cautela è d'obbligo nell'esaminare la «versione di Xi». Dopo le bugie precedenti non possiamo accettare a scatola chiusa i dati ufficiali di Pechino sulla mortalità bassissima. L'autarchia sanitaria che ha imposto l'uso di vaccini «made in China» è stata una scelta pessima vista la scarsa efficacia di quei prodotti. Infine, per quanto Xi sembri godere di un certo consenso popolare (la chiusura delle frontiere, ad esempio, per l'87% di cinesi che non può permettersi di viaggiare all'estero, viene probabilmente vissuta come una misura anti-élite), il dominio del partito comunista cinese sulla società civile è una ricetta inaccettabile in Occidente.
È il modello non autoritario quello che dovrebbe interpellarci. Taiwan, Corea e Giappone per la loro vicinanza furono i primi a subire l'onda di contagio originaria. In parte proprio la loro prossimità con la Repubblica Popolare li ha resi vigilanti: scottati dal precedente della Sars nel 2003 (nascosta anche allora da menzogne iniziali dei leader cinesi), molti Paesi dell'Estremo Oriente e Sud-est asiatico si erano dati sistemi di avvistamento rapido e precoce delle pandemie. Quando è arrivato il Covid, per limitare il contagio hanno usato un mix di ingredienti: nessun lockdown generalizzato; alto livello di coesione sociale e rispetto delle regole; campagne di vaccinazioni partite tardi ma infine assai efficaci. Queste soluzioni sono spesso legate fra loro. Non è stato necessario il ricorso a lockdown duri come in Europa, proprio perché la popolazione e gli esercizi pubblici adottavano con disciplina le maschere e le misure di distanziamento, igiene e prevenzione. La vicenda dei vaccini è un'altra lezione interessante. L'Estremo Oriente all'inizio ha perso mesi preziosi perché aspettava le forniture dall'industria farmaceutica americana.
Nel caso del Giappone il ritardo è stato aggravato perché l'authority sanitaria ha preteso che fossero rifatti tutti i test clinici sulla popolazione locale. Ma questo rigore nazionalista ha contribuito a rassicurare i giapponesi sull'efficacia e sicurezza dei vaccini. Una volta partita la campagna vaccinazioni, il Giappone ritardatario ha raggiunto e superato i Paesi occidentali. Oggi in quella parte del mondo si registrano alcune tra le percentuali più alte di popolazione vaccinata: 88% a Singapore, 80% in Corea del Sud, 79% in Giappone. Simili percentuali sembrano rispecchiare il livello di fiducia nelle autorità.
C'è una dimensione dove le restrizioni sono ben più severe che da noi: la chiusura delle frontiere. In questo i dirigenti democratici di Tokyo non esitano a copiare l'isolazionismo cinese. Come già alzarono il ponte levatoio per salvare le Olimpiadi estive, i governanti nipponici hanno di nuovo vietato l'accesso ai visitatori stranieri (da ogni parte del mondo, non solo dall'Africa) per bloccare Omicron. Alcune di queste ricette sono problematiche o impossibili da importare in Occidente. Però almeno un'informazione completa e un'analisi ragionata sono doverose.
È nell'Asia-Pacifico che si trova il nuovo centro del mondo anche secondo la Dottrina Biden. Tra qualche giorno il presidente americano convocherà virtualmente un vertice mondiale delle democrazie, un'iniziativa tesa a contrastare la narrazione di Xi, Putin, Erdogan e altri, sulla decadenza dell'Occidente. In quel vertice bisognerebbe ascoltare giapponesi e sudcoreani: la loro democrazia sembra vaccinata non solo contro il Covid bensì anche contro l'iperindividualismo, l'egocentrismo, l'ossessione per i diritti dei singoli, la secessione dalla comunità e la sfiducia nel principio di autorità.
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