Io sono cresciuto nel clima e nella cultura del patriarcato.
Anche se in pratica mio padre non l'ho conosciuto perche' era in guerra e poi per sei anni in prigionia.
Ho vissuto in una famiglia di donne che mi hanno assistito, curato e salvato dalle funeste peripezie della guerra e mi hanno dato un futuro.
Oggi che sono super anziano ripenso ogni tanto ai numerosi incontri femminili che ho avuto, specialmente quando facevo (nonostante la laurea in giurisprudenza) come mestiere principale il cantante, chitarrista nei night clubs, balere, radio e TV.
E devo ammettere, che provo molta vergogna, perche' i miei comportamenti nei confronti delle ragazze che volevano stare con me erano intrisi di aridita', solo interesse personale, talvolta violenza verbale al limite di quella fisica, scarsa considerazione per l'affetto (vero o fasullo) che mi veniva manifestato.
Come tanti maschi della mia generazione vivevo in una cultura che divideva il mondo femminile in due grandi categorie: quelle 'sante' come la mamma da esaltare e quelle da considerare poco piu' che un bene fungibile con rare eccezioni.
Una pseudocultura che, noi ragazzi di allora, respiravamo cercando di districarci e orientarci verso qualche modello di riferimento dopo essere sopravvissuti alla tragedia della Seconda Guerra Mondiale, ai bombardamenti, alla guerra civile, alla caduta di ogni principio di comportamento morale.
Sapevamo delle oltre diecimila donne che affollavano la pineta di Tombolo per la soddisfazione delle truppe americane di colore e del fatto che per mangiare e dare da mangiare tante, troppe donne dovevano svendere il proprio corpo.
Ci dicevano e leggevamo che la fame del dopoguerra giustifica tutto. La donna come cosa, da usare e gettare.
Ma tutto questo aveva radici nel tempo, un tempo di oltre duemila anni prima e un nome; Publio Ovidio Nasone (43 aC- 18 dC).
A venti anni Ovidio diventa famoso nella Roma Augustea per la sua Ars amatoria. una sorta di vademecum in terzine in cui descrive la molteplicita' dei rapporti sessuali tra uomo e donna avventurandosi in una ricerca dell'atteggiamento psicologico maschile e femminile.
La fama di questo poeta non e' solo dovuta a questo giovanile successo.
Fu autore di molte opere, il cui corpus è tradizionalmente suddiviso in tre sezioni. La prima sezione, che si colloca tra il 23 a.C. e il 2 d.C., è rappresentata dalle opere elegiache di argomento amoroso e comprende gli Amores, le Heroides (Epistulae heroidum) e il ciclo delle elegie a carattere erotico-didascalico.
La seconda sezione, tra il 2 d.C. e l'8 d.C, è caratterizzata dalle Metamorfosi (Metamorphōses o Metamorphosěon libri) e dai Fasti, di intonazione religiosa, mitologica e politica.
La terza e ultima sezione, compresa tra l'8 d.C. e la morte (17 o 18 d.C.), include le elegie dell'invettiva e del rimpianto: Tristia (Tristezze), Epistulae ex Ponto (Lettere dal Ponto[3]), Ibis.
Fu autore anche di altre opere, andate oggi perdute, tra cui una Gigantomachia e una tragedia, la Medea. Di grande importanza sono le odi, di cui oggi ci restano solo piccoli frammenti.
La fama di Ovidio fu grande in vita quanto nelle epoche successive alla sua morte: ne riprendono i temi o ne imitano lo stile, tra gli altri, Dante Alighieri, Francesco Petrarca, Giovanni Boccaccio, Ludovico Ariosto, William Shakespeare, Giambattista Marino e Gabriele D'Annunzio.
Inoltre, innumerevoli sono gli spunti che le Metamorfosi hanno fornito a pittori e scultori italiani ed europei.
Nell'8 d.C. Ovidio cade in disgrazia presso l'imperatore Augusto e viene relegato nella lontana Tomis (oggi Costanza), un piccolo centro portuale sul mar Nero, nell'attuale Romania Nel 18 Dc muore ancora in esilio.
Ma la storia di questo poeta va al di là della sua immensa produzione letteraria.
La sua prima opera Ars amatoria ha plasmato I comportamenti sessuali delle generazioni successive per migliaia di anni.
A cominciare da quella frase entrata nella coscienza popolare secondo cui: "illa vis grata puellis" in cui vis deve intendersi non come violenza ma come comportamento forzoso del maschio nei confronti della femmina che gradisce.
Terribile per la nostra cultura, alla luce di tragici eventi molto recenti, la spiegazione di Ovidio della sua affermazione,
«Tu la chiami violenza? Ma se è questo che vuol la donna! Ciò che piace a loro è dar per forza ciò che vogliono dare. Colei che assali in impeto d’amore, chiunque ella sia, ne gode, e la violenza è per lei come un dono; [poiché] il pudore vieta alla fanciulla di agir per prima. Può darsi si rifiuti, e allora i baci prendili a forza. Se reagirà, se per la prima volta ti dirà che sei sfacciato, credi, non vuol altro che resistendo, essere vinta insieme»
Significativo quanto scritto da Graziella Priulla ( Vitamine Vaganti): «Per secoli il procedimento classico è stato che lui dovesse chiedere e lei dovesse dire no. Sembra un gioco, quel mercanteggiare; ma ha avuto conseguenze tragiche.
Alla base c’è la tradizione della passività femminile nel campo della seduzione: anche se innamorata la donna non poteva prendere l’iniziativa ma doveva presentarsi come pudica e ritrosa, predisponendosi, in virtù delle sue passività, a “sottostare” al desiderio del maschio in modo da non sembrare sfacciata. Il presupposto che lei non avesse desideri (“non lo fo per piacer mio …”) reggeva tutto il copione, l’ignoranza in campo sessuale completava il quadro.Alla base ci sono i comodi equivoci maschili sul tema del consenso: vocabolo che in ogni rapporto umano — pensiamo ad esempio, per quanto sia triste il paragone, ai contratti commerciali — non significa “non dire di no”, bensì “dire esplicitamente di sì”.
Per dare l’idea dell’arretratezza in materia che caratterizzò la giurisprudenza italiana anche nel secondo dopoguerra basta riportare una sentenza della Cassazione datata 20 febbraio 1967: «Non può raffigurarsi violenza in quella necessaria a vincere la naturale ritrosia femminile, destinata a crollare al primo squillo di tromba come le mura di Gerico».
Concordava ancor più di recente (1982) il Tribunale di Bolzano, coniugando sessismo e classismo: «Qualche iniziale atto di forza o di violenza da parte dell’uomo non costituisce violenza vera e propria, dato che la donna soprattutto fra la popolazione di bassa estrazione sociale e scarso livello culturale vuole essere conquistata anche con le maniere rudi, magari per crearsi una sorta di alibi al cedimento ai desideri dell’uomo».
Correva l’anno 1999 quando uscì un’altra sentenza della Cassazione: ribaltando la sentenza d’Appello che lo aveva condannato a due anni e mezzo di carcere, i giudici assolsero un 40enne istruttore di guida dall’accusa di stupro ai danni di un’allieva 18enne.
Leggiamo identica sostanza nell’articolo di Massimo Fini pubblicato sul Fatto Quotidiano del 17 ottobre 2017 col titolo elegante “Fica Power colpisce ancora”: «A complicare le cose c’è l’eterna ambiguità della donna. Perché i suoi primi no possono essere di pura parata e nascondere un sostanziale sì».
Non hai colpa se la tua vittima non si oppone abbastanza allo stupro: questo quanto stabilito nello stesso anno dai giudici torinesi, che hanno assolto «perché il fatto non sussiste» un dipendente della Croce Rossa accusato nel 2011 da una giovane collega precaria poiché la donna non ha gridato, non ha chiesto aiuto e non ha «tradito quella emotività che pur doveva suscitare in lei la violazione della sua persona». (Vitamine Vaganti).
| 5:10 PM (3 hours ago) | |||
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