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Milei “il matto”, l’Argentina e i nodi da sciogliere in Europa



L’ascesa di Milei – L’Argentina e i nodi da sciogliere in Europa


Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero 

Il nuovo presidente argentino Javier Milei ha iniziato domenica scorsa il suo difficile compito, dopo una vittoria elettorale tanto netta quanto inaspettata. Il suo ingresso in politica è infatti recentissimo e il suo successo fondato su programmi opposti a tutto quanto era avvenuto in passato in un paese che ha visto la sua economia e il suo livello di benessere arretrare di anno in anno.

L’originalità dei suoi comportamenti, in molti casi spiazzanti, per usare un eufemismo, e l’estremismo delle sue proposte, comprendenti l’immediata adozione del dollaro americano al posto della moneta nazionale, l’abolizione della Banca Centrale e la riduzione al minimo di ogni presenza statuale, in un paese in cui lo stato provvede a tutto, gli avevano provocato il soprannome di “El loco” che in italiano si traduce “il matto”.


Ebbene “il matto” ha vinto contro ogni aspettativa, contro la quasi totalità dei media più autorevoli e contro la disapprovazione dell’establishment internazionale, portando avanti un programma di feroce austerity.

Un successo che ha avuto la sua espressione più significativa nel favorevole voto giovanile e nell’incredibile nuovo ruolo giocato dalla Rete e che, nella sostanza, non si è fondato sull’adesione ad un programma, ma sulla diffusa insoddisfazione per la situazione esistente.

Gli studenti che ho incontrato a Buenos Aires mi hanno sottolineato di avere votato per Javier Milei non in approvazione dei suoi programmi, ma come reazione ad un progressivo degrado che, nell’ultimo anno, ha portato il livello di inflazione al 140%, ha ridotto in povertà oltre il 40% della popolazione, ha aumentato la già impressionante differenza fra ricchi e poveri e ha totalmente svuotato le casse dello Stato, indebitando il paese in modo sostanzialmente irrimediabile.


Una situazione che, facendo perdere ogni credibilità al governo esistente, rendeva quasi fatale il prevalere di un voto in favore di tesi radicali, anche se quasi impossibili da realizzare.

Da domenica scorsa, giorno dell’insediamento, sono iniziate le difficoltà e i cambiamenti della politica governativa, anche perché il nuovo presidente, pur avendo estesi poteri, non può governare senza l’appoggio del Parlamento. Il suo partito (La Libertad Avanza) conta solo 39 deputati sui 129 necessari per formare la maggioranza e 7 senatori sui 72 componenti del Senato.

Tutto questo ha obbligato Javier Milei a stringere un’alleanza con il partito conservatore dell’ex presidente Macri e altre forze politiche meno radicali ma, soprattutto, a scegliere un ministro dell’economia che già aveva ricoperto questo ruolo nello stesso governo Macri e che viene perciò ritenuto in grado di dialogare positivamente con il mondo produttivo argentino, con il Fondo Monetario e con la finanza internazionale.

Il programma del “matto” ha quindi presto abbandonato la “dollarizzazione” dell’economia e gli altri estremismi e si sta rapidamente trasformando in un progetto di liberalizzazione e di austerità, progetto certamente meno dirompente ma ugualmente di difficilissima attuazione in un paese come l’Argentina.

Per mettere in ordine tutte le situazioni dissestate, sono infatti necessari anni di duri sacrifici. Nello stesso tempo, tuttavia, per adempiere alle promesse elettorali e per conquistare la risposta positiva da parte dei mercati internazionali, bisogna agire in tempi rapidissimi.

Per dare un esempio della ricerca di un faticoso compromesso e con l’obiettivo di non provocare immediate reazioni sindacali e popolari, l’insediamento del presidente è stato accompagnato, oltre che dalla inevitabile svalutazione della moneta nazionale, dalla promessa di tagliare sussidi alle provincie e ai trasporti pubblici.


Come decisione concreta è stato ridotto il numero dei Ministeri da diciannove a otto, misura di forte significato emotivo, ma certamente meno dirompente delle molte decine di migliaia di licenziamenti del settore pubblico preannunciati nella campagna elettorale.

Come possa poi operare in modo efficiente un ministero che comprende in una sola persona la competenza sulla Pubblica Istruzione, la Sanità, il Lavoro, la Sicurezza Sociale, i Trasporti, l’Energia e le Telecomunicazioni è un teorema tutto da dimostrare, ma è un messaggio certamente forte e popolare nell’immediato.

I problemi che il nuovo presidente argentino dovrà affrontare fanno quindi tremare le vene ai polsi, anche perché si dovranno rivedere tutti i rapporti internazionali che l’irruente campagna elettorale aveva compromesso.


In primo luogo le relazioni con il Brasile, paese gigante del Sud America, non saranno facili da riaggiustare dopo i ripetuti insulti lanciati al presidente brasiliano Luiz Inacio Lula, insulti resi più pesanti dalle relazioni quasi fraterne tenute da Milei con Bolsonaro, predecessore e avversario mortale di Lula.

Appena concluso il conteggio dei voti, è inoltre iniziato un veloce avvicinamento verso i collaboratori di Joe Biden per tentare di riequilibrare i numerosi e calorosi scambi di reciproca vicinanza politica con Donald Trump.

Allo stesso modo è subito iniziato l’ammorbidimento delle relazioni con la Cina. Con l’Europa i nodi da sciogliere non saranno pochi.


E’ infatti significativo che l’unico primo ministro dell’Unione Europea presente al giuramento di Milei sia stato Viktor Orban, non certamente l’uomo più popolare a Bruxelles.

A questo punto dovremmo però aprire un capitolo assai delicato perché ormai da troppo tempo l’Europa non dedica all’Argentina (e a tutta l’America Latina) l’attenzione che essa merita.

Dopo vent’anni di trattative non è ancora entrato in vigore il trattato commerciale fra Unione Europea e Mercosur.

Anche i rapporti culturali si sono via via affievoliti. Fino a trent’anni fa i leader politici latino-americani (fossero essi democristiani o socialisti) erano, nella quasi totalità, strettamente legati alle loro radici europee.

Oggi il loro riferimento è il mondo degli affari, della politica e delle Università degli Stati Uniti. Insieme al “potere duro” noi europei stiamo perdendo anche il “potere dolce”.

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