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Paesi in guerra: l’instabilità che favorisce i mercanti di armi



Paesi in guerra – L’instabilità che favorisce i mercanti di armi


Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero 

Siamo sempre più angosciati dalle tensioni della politica mondiale e dal crescente numero dei conflitti che oggi trovano, nella guerra di Ucraina, la loro espressione più lunga nel tempo. Il conflitto russo ucraino sta infatti entrando nel suo terzo inverno e lascia alle sue spalle centinaia di migliaia di morti e distruzioni inimmaginabili. E non se ne vede ancora la fine.


Questa pur esile prospettiva si è dissolta da oltre un quinquennio e, come riferisce il rapporto annuale del SIPRI (l’Istituto Svedese che fornisce i dati più autorevoli e credibili in materia di armamenti) nello scorso anno si è verificata un’impennata nella vendita delle armi e ancora più negli ordinativi per gli anni futuri.

Pur con una capacità produttiva ancora limitata dagli esiti del Covid, nel 2022 le spese militari mondiali hanno infatti raggiunto i 2240 miliardi di dollari, con un aumento del 3.7% rispetto all’anno precedente, superando per la prima volta la spesa militare dell’ultimo anno di guerra fredda.


Una spesa che si va sempre più orientando verso una crescente intensità di ricerca per produrre armi sempre più raffinate, pur tenendo conto che la guerra di Ucraina ha aumentato anche la richiesta di armi e di munizioni in uso da parecchi anni.

Suscita certamente grande impressione constatare che è persino aumentato il numero delle testate nucleari che ammontano a oltre le 12.000.

Di queste almeno 2000, equamente divise fra Stati Uniti e Russia, sono ritenute pronte per la “massima allerta operativa”.


Il che significa che sono montate sui missili e hanno solo bisogno di un ordine per esercitare la loro potenza distruttiva che, nelle ultime loro edizioni, è stimata essere venti volte superiore rispetto alla bomba sganciata su Hiroshima.

Tutto questo a dispetto del trattato sulla proibizione delle armi nucleari, visto come una speranza da tanti popoli, ma che non ha trovato alcuna accoglienza da parte dei tredici paesi che posseggono un armamento atomico.


Le spese militari sono naturalmente correlate al livello economico e al ruolo politico dei diversi paesi. Non ci sorprendiamo quindi che il bilancio della difesa degli Stati Uniti abbia raggiunto, nell’ultimo quinquennio, il 40% del totale mondiale e che il secondo posto sia ricoperto dalla Cina.

Essa, pur spendendo in termini nominali un terzo rispetto agli Stati Uniti, ha aumentato ininterrottamente il proprio impegno per la difesa durante tutti gli ultimi ventotto anni e non sembra avere progetti di un cambiamento di linea per il futuro.

Anche se partendo da livelli quantitativi più modesti, la crescita maggiore dell’impegno militare si è verificato in Europa, dove nell’ultimo anno, soprattutto per effetto della guerra di Ucraina, la spesa è cresciuta del 13%.


A questo bisogna aggiungere che le previsioni per i prossimi anni sono di un’ulteriore lievitazione, soprattutto in conseguenza dell’ingente aumento del bilancio della difesa della Germania e dei paesi confinanti con la Russia.

Siamo arrivati all’assurdo che, pur avendo raggiunto una spesa di 480 miliardi, quindi oltre la metà degli Stati Uniti e ben oltre i 292 miliardi della Cina, la capacità militare europea viene ritenuta fragilissima, in quanto frammentata e senza una vera strategia comune sotto l’aspetto produttivo e di efficacia in caso di conflitto.

Da parte americana la pressione per un aumento dell’impegno militare europeo viene abitualmente accompagnata da una pesante, ma giustificata, ironia sulla nostra efficienza.


Tutto questo ci obbliga a concludere che un eventuale crescente aumento delle spese militari europee dovrebbe essere preceduto, o almeno accompagnato, da una politica estera e di difesa comune.

Quanto alle esportazioni delle armi, esse vedono evidentemente gli Stati Uniti in posizione di leadership, con una quota crescente e con un forte bilancio attivo nei confronti dell’Europa, mentre è progressivamente diminuito l’export della Russia, essendo la sua industria militare indirizzata a produrre soprattutto in funzione del rafforzamento dell’esercito nazionale, impegnato prima in Crimea e poi in Ucraina.

Riguardo all’importazione, fa certamente riflettere che, tra i maggiori importatori di sistemi d’arma, troviamo in primo luogo l’India, seguita dall’Arabia Saudita e dal Qatar.

Questo è lo stato del presente, analiticamente descritto dal SIPRI (a cui in Italia collabora il Torino World Affairs Institute).


Sul futuro possiamo solo constatare che le difficoltà del bilancio pubblico e le conseguenze negative sugli altri capitoli di spesa, a partire dalla spesa sociale, stanno creando ovunque una sempre maggiore resistenza alla dilatazione degli impegni per la difesa.

Non è facile prevedere quale tendenza finirà per prevalere, anche perché negli Stati Uniti, che ancora hanno il maggiore peso e la maggiore responsabilità in materia, si sta aprendo una campagna elettorale nella quale il capitolo delle spese militari (e dell’impegno in Ucraina e in Israele) verrà usato nella ristretta prospettiva della politica interna e non nel quadro di una strategia globale.

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