Alberto Pasolini Zanelli
da Madrid
Forse c’è qualcosa
di vero, dopotutto, nel racconto ribadito e concitato della “ripresa spagnola”,
della sorta di piccolo miracolo iberico con conseguenze psicologiche anche
all’estero: a cominciare da una sorta di “sorpasso” di Madrid ai danni di Roma.
Il governo lo dice e lo ripete, le autorità della Troika assentono con ampi e
ribaditi sorrisi, perfino la
Merkel appare più rilassata quando si parla di cose di qui. È
un’ondata soprattutto psicologica, scarsamente corroborata dai fatti e
soprattutto dalle cifre, che restano in realtà mediocri. Quando si dice che “la Spagna cresce” ci si deve
poi appoggiare a un “boom” dello 0,1 per cento. Non abbastanza per anche solo
accennare a un riassorbimento delle conseguenze del crollo dell’immobiliare e
del crack delle casse di risparmio. La disoccupazione giovanile, per esempio,
continua a muoversi alla quota stratosferica del 55 per cento. Ma si tratta pur
sempre di un piccolo “più” dopo tanti anni di “meno”. La Spagna è sempre un Paese,
un popolo in castigo, nell’angolino assieme a noi e a tanti altri. Lo conferma,
ed è più di un semplice esempio, l’involuzione dei sistemi sociali e sanitari:
uno spagnolo su cinque continua a vivere sotto la soglia della povertà,
cinquecento euro al mese e il budget dei servizi sociali è stato amputato ancora
poco più di un anno fa di un ulteriore 13 per cento. Calano i rimborsi, il
prezzo delle medicine è salito del 60 per cento, un terzo dei letti in ospedale
sono tuttora “chiusi”. Continua un trend storicamente importante e
significativo: il capovolgimento del flusso migratorio. Fino a pochi anni fa
affluivano in Spagna presidenti del suo ex impero coloniale, America Latina in
testa, i posti di lavoro persi o distrutti a causa delle recessioni di quei
Paesi.
Da qualche tempo ci
sono di nuovo più spagnoli che percorrono itinerari da “Dagli Appennini alle
Ande” e si dirigono verso l’Argentina, il Cile, perfino il Messico. Si potrebbe
chiamare ritorno alla normalità, se non fosse che l’interruzione di questo
processo aveva giustamente sollevato entusiasmi e prognosi rosee. Gli indizi
positivi sono piuttosto di ordine psicologico, in primo luogo l’allontanarsi di
una crisi di governo (non si parla più di elezioni anticipate, alle urne ci si
andrà quest’altr’anno, come era previsto). Si sono svelenite, forse di
conseguenza, anche le polemiche tra partiti in vista di un showdown a breve
termine. L’opposizione socialista ha abbassato i toni, il governo conservatore si
muove con qualche franchezza in più.
Il vero indice che
dovrebbe ispirare un po’ di fiducia autentica è improbabile quanto indicativo:
gli spagnoli trovano il tempo di prendersela con il re, in forma perfino
appassionata, come se riesplorassero le radici di rancori antichi. Il motivo è
invece più modesto: una serie di gaffe culminata in un incidente di due anni fa
che ha “acciaccato” il sovrano durante un safari in Botswana, una partita di
caccia all’elefante, senza regina ma con qualche altra presenza femminile. In
un Paese sostanzialmente monarchico, che rivorrebbe la Repubblica. Non
ci sono referendum in vista, ma il malumore si esprime in forme anche
drastiche: per esempio quando una salva di fischi accoglie la regina alla sua
apparizione al Teatro Real, da parte di un pubblico di amatori di musica
classica. Se la prendono con lei come simbolo, non come persona. Come simbolo e
come famiglia fra le voci di scandali che si moltiplicano e coinvolgono, per
esempio, la principessa Cristina, figlia delle Loro Maestà. Quanto a Juan Carlos,
per la prima volta il suo sostegno, non plebiscitario ma indicativo: ancora un
anno fa era il 45 per cento degli spagnoli a desiderare una sua abdicazione,
oggi è più del 60. Qualcuno azzarda un paragone: Juan Carlos sarebbe diventato,
a Madrid e dintorni, ancora meno popolare di Angela Merkel. Di referendum
istituzionali naturalmente non si parla, ma una tale distrazione sembra
indicare un calo della febbre politica anche e soprattutto nei suoi riflessi
nelle imminenti elezioni per il Parlamento europeo. Il partito di governo, di
centrodestra, continua a perdere terreno nei sondaggi, però la sua caduta non
più verticale. L’opposizione “ufficiale”, quella socialista, non è in grado di
approfittarne. Entrambe le forze politiche tradizionali del dopo Franco, quelle
che si sono spartiti finora equamente gli anni di potere, sono entrambe in
declino. Crescono, di conseguenza, le intenzioni di voto per i partiti della
Protesta, dalla Unione per Progresso e la Democrazia, fondata da una socialista dissidente,
Rosa Diez, che però ha formato un partito centrista. È vero che
contemporaneamente sono dati in aumento anche i comunisti, ma gli indizi di
moderazione si rafforzano quando si assiste al declino di una spinta ben più
pericolosa, quella secessionista. Baschi, catalani e navarrini contano di
guadagnare suffragi ma hanno ammorbidito il loro linguaggio, come se si fossero
adattati a un segnale di rallentare. L’ultima notizia è l’espulsione del re: ma
non dalla Spagna bensì da un club ecologista e animalista. Per solidarietà verso
dei poveri elefanti.