Alberto Pasolini Zanelli
Fino a pochi giorni
fa, o addirittura fino a poche ore, ci si poteva illudere che in Ucraina e
dintorni il peggio fosse passato. Che la doppia crisi istituzionale a Kiev e in
Crimea potesse essere alla fine “digerita” da tutti gli interessati previo uno
sfogo di parole, di gesti e di sanzioni che lasciassero in ciascun protagonista
l’illusione di avere avuto l’ultima parola e al mondo quella, ancora più
importante, che le parole stavolta avrebbero seguito e non preceduto i fatti e
che pertanto si finisse con l’accontentarsi di robuste bordate di accuse,
insulti e sanzioni. Questa prospettiva minaccia ora di svanire e, invece della
prevista o almeno auspicata “deflazione”, la crisi conosca ora una “inflazione”
di parole, accompagnata da una escalation di fatti.
Nelle ultime ore se
ne sono avuti di sovrabbondanti, insistenti, allarmanti. Anche a volere
ragionevolmente cercare di mantenere il senso delle proporzioni, non si può
negare che, proprio alla vigilia di un meeting in calendario per oggi a Ginevra
che ora assume contorni assai più decisivi, da ambo le parti sul campo, Russia
e Ucraina, si stia passando invece dalle trattative ai gesti, dalla battaglia
di propaganda ad azioni di carattere o almeno di aspetto sempre più bellico. I russi
che continuano ad ammassare truppe alla frontiera ucraina possono ancora
passare per un gesto dimostrativo, ma è quello che accade dall’altra parte di
quella frontiera ha superato i limiti delle pressioni propagandistiche. La
minoranza russa nell’Ucraina orientale è passata dalle proteste alle
“occupazioni” e ora a iniziative apertamente rivolte contro le istituzioni
dello Stato e principalmente le sue forze armate. Sventolano ora bandiere russe
sui panzer che gli ucraini avevano mosso in direzione della frontiera ma sempre
sul loro territorio per “riportare la normalità”. Una parte dei carri si è
ritirata dopo avere ceduto le armi agli “insorti”. Questi ultimi sembrano ora
disporre di una parte di quei mezzi. Si delinea una situazione simile a quella che
si verificò un quarto di secolo fa sulla piazza Tienanmen di Pechino, quando si
diffuse l’illusione che dei civili potessero fermare i panzer. Non andò così e
se anche il “miracolo” si ripetesse fra il Donez e il Dnieper, non sarebbe una
vittoria della democrazia, ma piuttosto la prova di uno sbandamento nel
giudizio di tutti i protagonisti. Tutti, in una forma o nell’altra, si sono
comportati nelle scorse settimane e soprattutto negli ultimi giorni come
fossero convinti che la controparte – ogni controparte – stesse in fondo
bluffando. Che le pressioni di Putin sulle frontiere nordorientali dell’Ucraina
fossero dimostrative e potessero cessare in cambio del tacito riconoscimento
dell’Occidente al fatto compiuto in Crimea così come la reazione russa in Crimea
avrebbe finito con il fare da schermo alla sconfitta subita da Mosca nel resto
dell’Ucraina con l’abbattimento di un governo “amico” da parte della piazza. Ora
pare invece che i russi ora ricopino su più ampia scala non solo la strategia
della piazza in loro favore in Crimea ma anche quella di Kiev e di molte altre
città ucraine contro di loro nei giorni in cui la crisi si aprì. Sollecitando
un ricordo allarmante o almeno triste: si ragionò così anche cent’anni fa,
all’indomani di Sarajevo.