(dal Corriere della Sera)
Michele Ainis
Guerra o pace? Né l’una, né l’altra: noi siamo per la guerra pacifica. Due Camere o una sola? Lasciamole agli altri queste soluzioni rozze; in Italia avremo una Camera e mezza. E da chi verrà eletto il nostro mezzo Senato? Dal popolo o dai consiglieri regionali? Risposta: lo eleggeranno i cittadini attraverso il Consiglio regionale. E il matrimonio gay? Niente da fare, però il Parlamento sta approvando le unioni matrimoniali. Meglio il parlamentarismo oppure il presidenzialismo? Meglio il presidenzialismo mascherato dentro un parlamentarismo taroccato.
È la nostra inclinazione nazionale: ogni decisione corre sempre su un piano inclinato. Anche quando si tratta di decidere fra attacco e difesa, fra resistenza e indifferenza. Anche se di mezzo c’è una guerra, ovviamente senza dichiararla.
Useremo, pare, quattro bombardieri contro l’Isis; ma c’è voluta un’anticipazione del Corriere per
scoprirlo. E come potrà scoprirlo il Parlamento? Forse con
un’informativa del governo, forse con un voto in commissione. Tuttavia
non è questa la regola: perché la Costituzione ammette la sola guerra
difensiva (articolo 11) e a condizione che venga deliberata dalle Camere
(articolo 78). Magari sarà una regola sbagliata, ma allora cambiamola
invece d’aggirarla. Nella primavera del 1999, durante i bombardamenti in
Kosovo, fu Clemente Mastella a suggerirne la modifica; ottenne soltanto
una modifica verbale, perché da lì in poi le guerre sono diventate
«ingerenze umanitarie». N el frattempo la Costituzione sta cambiando, o
forse no. Perché la novità più innovativa non è scritta nero su bianco
nel testo di riforma, bensì nella legge elettorale. Con un premio di
maggioranza concesso al partito - anziché alla coalizione - intascheremo
l’elezione diretta del presidente del Consiglio, senza correggere una
virgola della nostra forma di governo parlamentare. Che dunque rimarrà
viva ma esangue, come una fanciulla addentata dal vampiro. Il
presidenzialismo venne già proposto dai monarchici nel 1957;
successivamente dai missini; poi da Craxi nel congresso di Rimini del
1987; dalla Bicamerale di D’Alema nel 1997; da Berlusconi nel 2008.
Nessuno di loro vi riuscì, per la medesima ragione che sta permettendo a
Renzi la riuscita. Difatti alle nostre latitudini vige una regola
d’acciaio: se vuoi fare, non lo devi dire. E se invece dici, usa almeno
due parole: una per dire, l’altra per disdire.
È il caso del nuovo articolo 57 della Carta, che disciplina la composizione del Senato. Il comma 2 ne stabilisce l’elezione, il comma 5 la durata. Ma la norma elettorale ha una gamba di qua e una gamba di là: nel comma 2 decidono i Consigli regionali, nel comma 5 gli elettori. Contorsioni logiche, acrobazie semantiche. Del resto siamo pur sempre il Paese che ha introdotto il divorzio senza menzionarlo. Sicché la legge n. 898 del 1970 divorziò dal vocabolario, riferendosi sempre e soltanto allo «scioglimento del matrimonio», alla rottura della «comunione spirituale e materiale tra i coniugi». Mezzo secolo dopo, stiamo per fare il bis con il matrimonio omosessuale. Nel disegno di legge Cirinnà non figura nemmeno una volta l’aggettivo, mentre il sostantivo si traduce in un’«unione civile», anzi in una «specifica formazione sociale». La forma della formazione, ecco il problema.
C’è una vittima, c’è un agnello sacrificale nei nostri costumi politici e giuridici. Ne fa le spese la legalità, perché in Italia la legge è opaca, ingannevole, insincera. E in ultimo nessuno mai risponde delle proprie azioni, delle proprie decisioni. Per rispondere, d’altronde, servirebbe una domanda chiara, come quella d’un bambino. Invece la Repubblica italiana è diventata adulta, ma non è né vergine né madre: è sempre leggermente incinta .
michele.ainis@uniroma3.it