Alberto
Pasolini Zanelli
Di risultati delle
elezioni portoghesi di domenica ce ne sono due, basati sulle stesse cifre ma
contrapposti. C’è quello numerico e c’è quello politico e l’attenzione a
Lisbona e fuori si è concentrata sul secondo dal momento in cui dalle urne sono
cominciati ad emergere i commenti e le interpretazioni in anticipo sulle cifre.
Leggiamoli, dunque, queste due serie di numeri e poi toccherà al lettore,
soprattutto quello straniero meno coinvolto emotivamente, di continuare il
gioco soggettivo e suggestivo di tutte queste cifre. Quello che conta, volendo,
è il più indiretto tra i computi, che si riassume in una frase breve breve: il
governo sopravvive e da ciò si può dedurre che ha vinto. Ed è vero se si guarda
alle conseguenze più indirette ma anche forse più importanti: il Portogallo non
ha copiato né la Grecia, né la Spagna e ha confermato di essersi rassegnato (ma
evidentemente non entusiasta) a un’altra legislatura all’insegna dell’amara
cura dell’Austerity. Che continua, ma con qualche miglioramento. O almeno, ed è
già tanto, non si è ulteriormente aggravata e qualche sorriso gli spetta, da
Bruxelles e da Berlino probabilmente di più che da Lisbona. Il bilancio
politico è, insomma, misto. Mediocre in sé, ma tale da suscitare le invidie dei
colleghi di Atene, di Madrid e naturalmente anche di Roma. Il povero, umile
Portogallo continuerà ad avere il 20 per cento della popolazione confinata al
salario minimo di 500 euro mensili, ma i suoi governanti possono anche
sostenere che il peggio è alle spalle. La crescita che a Roma ancora si evoca
come traguardo o almeno si sogna, è cresciuta molto di più, cioè dell’1,5 per
cento rispetto all’anno scorso; l’occupazione è in ripresa, i titoli di Stato
portoghesi sono calati in tre anni da un vertiginoso 18 per cento a un 2,3 per
cento, sempre troppo alto ma ragionevole. Il debito continua ad essere alto,
vicino al 130 per cento, superato solo, naturalmente in negativo, da quello
della Grecia e dell’Italia, l’equivalente dell’Iva sfiora il 25 per cento anche
sui generi di prima necessità, in Portogallo fiorisce più che altrove il
fenomeno di una emigrazione di massa da un Paese europeo: un cittadino su venti
se ne è andato negli ultimi due anni, soprattutto i giovani.
Il paesaggio
continua dunque ad essere tipico dell’Austerity, una combinazione di
recessione, disoccupazione, aumento delle tasse. Sembra svanito, però, lo
spettro del crollo verticale, Lisbona non è più socia a pieno diritto del club
dei miseri e dei reietti. La popolazione, però, non è tentata dalla rivolta e
tanto meno dalla “soluzione” dell’addio all’euro. In più i portoghesi sono
portoghesi, famosi per la loro pazienza, rifiuto della violenza e un misto fra
pazienza e scetticismo fiorito su una abitudine al dolore, espresso anche nella
sua cultura e nella sua musica. Il fado, la poesia della stanchezza. Lo hanno
intonato di nuovo, magari a voce un po’ più bassa del solito, gli elettori, di
fronte alla scelta fra la fiducia e la protesta. Lo hanno fatto in modo da
accontentare un po’ tutti. Il governo del premier Coelho, di coalizione fra i
socialdemocratici (che sono di centro) e il Centro Democratico (che è di
destra), conserva una precaria maggioranza, mancando però quella assoluta e
quindi continuerà a dipendere dall’appoggio di qualche “partitino”. In termine
di voti è rimasto sotto al 39 per cento dei suffragi espressi, meno dunque dei
tre partiti dell’opposizione di sinistra, il 32 per cento di socialisti, una
delle due forze classiche e storiche, meno dell’8 per cento ai comunisti, in
severo declino e più del 9 per cento del “nuovo” Bloco de Esquerda, cioè la
Nuova Sinistra ispirata e sostenuta dall’ellenica Syriza. In una visione
aritmetica, dunque, i “no” superano i “sì” ma, più divisi, ottengono qualche
seggio in meno.
Una valutazione
non può peraltro tacere il dato dell’astensione, che non è fiducia ma sfiducia,
estesa però alle forze di opposizione. Sono rimasti a casa, infatti, 45
elettori su cento, il che riduce ulteriormente il consenso al governo a un
elettore su quattro. Fiducia, pazienza, rassegnazione? Un po’ di tutto, ma soprattutto
un voto molto portoghese, radicato nella storia e nelle abitudini di un Paese
che quarant’anni fa è riuscito a condurre in porto senza spargimento di sangue e
moderazione perfino una rivoluzione. E che da sempre conosce e pratica la
corrida, ma con regole che vietano l’uccisione del toro.