Alberto Pasolini Zanelli
Ci sono perfino novità nella
maratona elettorale americana. Subito dopo l’apertura ufficiale del
procedimento, Hillary Clinton e Donald Trump si sono incontrati e hanno parlato
di cose serie, offrendo agli ascoltatori una tregua dall’usuale menu di insulti
reciproci e di reciproche insinuazioni. Hanno parlato di politica estera e
militare in un forum organizzato nel Museo Aerospaziale di Manhattan. Si sono
confermati nelle loro convinzioni di fondo ma hanno sorpreso i male informati,
in America ma soprattutto nel resto del mondo, circa le rispettive “filosofie”.
Ne è venuto fuori, sorprendendo
tutti costoro, un Donald Trump “colomba” e una Hillary Clinton “falco”. I
termini sono stati più moderati del solito, ma le posizioni sono venute fuori
chiare e inconciliabili. La sorpresa è venuta, per il più folto pubblico, da
Trump, che per la prima volta si è espresso concretamente in questo campo,
risalendo dal sistema delle declamazioni disinvolte. Ha detto agli americani
cosa farebbe da presidente, che è anche il ruolo del comandante in capo delle
forze armate. Il suo programma potrebbe racchiudersi in una formula: più armi e
meno guerre. Intransigenza bellicosa nei confronti delle organizzazioni
terroristiche tipo Califfato, disponibilità a trattare con gli altri
antagonisti degli Usa, a cominciare dalla Russia. L’Isis lui è disposto a
bombardarla fino a ridurla in brandelli abbietti e quanto ai terroristi singoli
è disposto a chiudere un occhio sulle torture. Ma poi ha aggiunto subito: “A
differenza di altri candidati alla presidenza, la guerra e l’aggressione non
sarà il mio primo istinto. Una Superpotenza deve capire che cautela e
moderazione sono i veri segnali della forza”. Un addio, dunque, ai programmi di
“guerre umanitarie” e di “democratizzazione con le armi”, quella chiamata in
gergo “nation building”, che è stata più o meno la dottrina ufficiale di Washington
negli scorsi decenni: “La Guerra Fredda è finita, evitiamo se possibile di
riaccenderla”. Un programma che ricorda le intenzioni iniziali di Barack Obama
più che l’aggressività di Hillary Clinton. Uno dei suoi più stretti
consiglieri, David Axelrod, ha definito Trump “una pecora travestita da lupo”.
Hillary, al confronto, è un falco
in divisa da falco. È una “internazionalista”, dunque promotrice delle “guerre
umanitarie”, più vicina in questo a George W. Bush che a Barack Obama, anche se
di quest’ultimo ella è stata ministro degli Esteri e in quel ruolo ha
contribuito a spingere il presidente, fino a un certo punto, verso gli atteggiamenti
“duri”, dall’Ucraina, all’Iran, al mare della Cina meridionale. Ma soprattutto
in Libia e in Siria. Condusse il più convincente dei suoi sforzi convincendo il
presidente a partecipare alla “avventura” in Libia, rivelatasi un disastro,
superato soltanto da quelli in Irak e ancor più in Siria; a proposito della
quale Trump è disponibile a un accordo con Putin che lasci il potere ad Assad
mentre la Clinton continua a pensare che l’eliminazione del dittatore sia
l’unica soluzione, dunque obbligatoria. Quando era Segretario di Stato, Hillary
aveva il più stretto collaboratore in Madeleine Albright, che durante l’ultima
crisi nella ex Jugoslavia incitò gli avversari della Serbia a mantenere una
linea dura, “altrimenti”, disse, “noi non possiamo bombardare”. Quanto
all’Irak, la stessa Albright a una domanda “cattiva” se fosse giustificabile il
prezzo umano di quell’intervento (“mezzo milione di bambini morti”), rispose
che “si trattò di una scelta molto difficile ma perfettamente legittima”. Riguardo
all’Irak, Trump la pensa come Obama, cioè che “si trattò di una delle idee più
stupide”.
Chi è dunque il “falco” e chi la
“colomba”? Pare addirittura rovesciato il tradizionale rapporto antagonistico
fra repubblicani e democratici, ma quando si tratta di decisioni gravi e di una
campagna per la Casa Bianca, allora pesano di più le convinzioni personali, gli
istinti e le esperienze di vita. Hillary ha fatto sua la tradizione del suo
partito di “internazionalismo liberale” e la convinzione dell’America come “nazione
indispensabile” che sappia però esercitare questa sua “missione” attraverso la
legalità internazionale e il multilateralismo. Però non è nata così: il suo
primo impegno politico fu di attivista nella campagna elettorale nel 1964 di
Barry Goldwater, l’uomo cui Trump viene spesso paragonato, ma non come
complimento, dai democratici e anche da diversi repubblicani. Del resto era
figlia di un ufficiale di Marina, quindi aveva nelle vene un patriottismo senza
troppe remore. Una miscela che si legava abbastanza bene negli anni della
Guerra Fredda e trovò in Ronald Reagan una guida capace di portare un’America
compatta alla prova di forza che avrebbe causato il crollo dell’avversario sovietico
e del comunismo in Russia, inaugurando l’epoca e il mondo della post Guerra
Fredda, molto più scomodo di quanto fosse lecito illudersi un quarto di secolo
fa e a cui tutti dovranno cercare di adattarsi. Non solo ma anche l’America.