Alberto
Pasolini Zanelli
In poche ore, ma
fortunatamente anche per poche ore, sono parse minacciate addirittura le grandi
conquiste della fine della Guerra Fredda. È stato quando alcuni organi di
stampa un po’ per giustificatissima fretta, un po’ per attrazione allarmistica,
hanno tentato di riassumere il misterioso scontro in Siria in termini come
“sessantadue soldati russi uccisi da un bombardamento americano”. C’era da
farla bollire questa Guerra Fredda, da attendersi rappresaglie dirette, come
sarebbe stato obbligatorio un quarto di secolo fa. Sono arrivate invece le
spiegazioni, che magari non spiegano ma raffreddano almeno l’atmosfera. Per
cominciare i morti non erano russi ma combattenti in difesa del governo siriano
con l’appoggio e la protezione dei russi. E gli attaccanti non necessariamente
americani, ma forse guerriglieri delle varie organizzazioni che vogliono
rovesciare il regime di Damasco. Sempre sotto direzioni americane, però. E una
precisazione da Washington si è fatta attendere diverse ore, finché non è
venuta nella forma più blanda: “Può darsi che ci sia stato un errore”.
L’errore si trova
su una carta geografica. C’è, non troppo lontana da Aleppo, una roccaforte
governativa che le milizie jihadiste stringono d’assedio. Gli aerei americani erano
lì per aiutare i difensori ma invece, a quanto pare, hanno bombardato proprio
quelli e quindi sono serviti da avanguardia del nemico comune. “Non c’è prova”,
si sono affrettati a dire al Pentagono. E non c’è prova, ha convenuto poco dopo
l’ambasciatore russo all’Onu, Churkin, di una collusione americana con i
jihadisti; c’è però un atteggiamento demagogico, il tentativo di cercare
vantaggi politici in una situazione gravissima. L’inviato di Mosca ha ricordato
che in quel momento era in corso un accordo bilaterale che prevedeva che le
azioni militari contro l’Isis venissero concordate da un centro di comando
russo-americano. L’intero accordo potrebbe dunque saltare, anche se nessuno dei
due firmatari sembra desiderarlo.
Putin era
ufficialmente impegnato nelle elezioni parlamentari di domenica, in cui il suo
partito, “Russia Unita”, si è confermato maggioranza assoluta. Obama aveva a
che fare, oltre che quello sfortunato “evento”, con altri due atti quasi
certamente collegati con il terrorismo islamico: la bomba di New York e il
coltello del Minnesota. Quest’ultimo, in mano a un terrorista isolato che non
potrà raccontarci i dettagli perché è stato ucciso dalla polizia durante lo
scontro. L’Isis, però, se ne è assunta la responsabilità. Con anticipo sul gesto
di New York, che ha fatto meno vittime ma ha l’aggravante di essere stato
compiuto in una data storica per le Nazioni Unite, contemporaneamente agli
sviluppi della prima azione militare concordata con Stati Uniti e Russia dal
1945. La “bomba” è dunque ancora ufficialmente senza padre, ma nessuno ha dubbi
sulle sue origini. Se i diplomatici delle due parti fanno il loro mestiere
aggrappandosi a tutto il riserbo possibile, il resto dell’America che conta ci
si è invece aggrappata, usandola in vari modi com’era inevitabile in una fase
critica della campagna elettorale. Uno “sbaglio” in Siria, una disattenzione a
New York, una distrazione in Minnesota. Basta e avanza a Donald Trump, uomo che
dà la precedenza all’Ordine (e, dove occorra, alla violenza) Hillary Clinton è
invece costretta alla strategia opposta: si è precipitata ad avvertire che non
bisogna precipitare un giudizio e attendere che si chiariscano le
responsabilità. È il linguaggio che ci si poteva attendere da un candidato i
cui piani sono stati recentemente imbrogliati e confusi prima di tutto
dall’allarme per le sue condizioni fisiche, che incoraggiano il rivale a
buttarsi su una domanda poco cavalleresca ma inevitabile e ascoltata: potrebbe
l’America affidarsi a un presidente per così tanti aspetti debole, proprio nel
momento in cui riprende vigore e minaccia il terrorismo domestico? Ambedue i
concorrenti alla Casa Bianca incitano i cittadini a reagire con compostezza, a
non lasciarsi trascinare in un confuso anelito di rappresaglia. Nervi saldi è
lo slogan del momento. Ma i nervi saldi non sono, almeno quest’anno e in questi
giorni, un concetto apolitico. Donald Trump ha un’occasione in più per
sventolare una sorta di “camicia insanguinata”, accusare più o meno
direttamente per l’ennesima volta Barack Obama per la sua “debolezza” e
incollare le sue responsabilità e mancanze ai programmi, alle intenzioni e alla
personalità di Hillary Clinton, che è stata suo Segretario di Stato per i
quattro anni in cui l’America ha commesso i peggiori errori, un po’ ovunque ma
soprattutto nel Medio Oriente della Primavera Araba.