Alberto Pasolini Zanelli
Una buona mezza dozzina di Paesi
del mondo aspettano in queste ore con ansia più o meno celata il percorso
dell’orologio e del calendario verso la scadenza della settimana di tregua
promessa da Stati Uniti e Russia al termine di un ennesimo, serrato vertice e
fino a metà strada sostanzialmente rispettata. Non solo ma anche, anzi
soprattutto, in quel punto cruciale che si chiama Aleppo e che è diventato il
simbolo e il punto focale dell’intero conflitto e degli sforzi per concluderlo
almeno con un armistizio. La prima tappa, la più attesa, riguarda l’evacuazione
dei civili sottoposti da un anno ai bombardamenti e ai combattimenti. Ma è
guerra anche altrove, perfino alle porte di Damasco, dove si è appena conclusa
una serrata battaglia con la vittoria dell’esercito fedele al presidente Assad,
che subito dopo è comparso in persona a visitare le trincee vuote e le rovine
copiose.
Ma l’attenzione del mondo si
concentrava, anche in quelle ore, a Ginevra, dove i due ministri degli Esteri,
l’americano Kerry e il russo Lavrov, erano impegnati dalla mattina alla notte
per cercare un accordo auspicato da molti ma ostacolato da non pochi,
soprattutto a Washington, dentro il Pentagono. Molti militari obiettavano che
la formula approvata costituiva “un successo per la Russia”. Ciò che è in buona
parte innegabile, ma non perché Lavrov sia riuscito a convincere e convertire
il collega Usa, bensì perché quella formula era in realtà la preferita anche di
Kerry, che ha lottato centimetro per centimetro per convincere Obama, quasi
dilaniato dagli strattoni che gli venivano dai due lati, dai fautori di una
logica di pace senza illusioni e dai fedeli alla logica alla Guerra Fredda. Questi
ultimi accusavano in sostanza la diplomazia Usa di cedere, se non addirittura
“capitolare”, alla “prepotenza” di Putin. E in effetti su un punto ciò è
accaduto: fino al penultimo giorno di colloqui a Ginevra, la posizione
ufficiale americana, fatta propria dal presidente in persona, era che Assad
doveva essere escluso dalle trattative di pace e dalla successiva transizione
politica a Damasco. A Ginevra questa precondizione è stata abbandonata e il
compromesso è sì più vicino alle posizioni di partenza del Cremlino, che
sostiene che è illusorio e poco equilibrato un accordo che concedeva quasi
tutto alle forze di opposizione.
Che erano e sono estremamente
eterogenee. Non sono per la presenza di belligeranti come i curdi e, contro di
loro, la Turchia di Erdogan, ma anche e soprattutto sul fronte principale.
Ufficialmente l’America ha sostenuto che questa guerra dei cinque anni ha visto
principalmente di fronte il dittatore Assad e le “forze democratiche”. In realtà
il peso bellico è stato sempre più nelle mani dei jihadisti, con due “firme”:
Isis, sotto il Califfato islamico e una organizzazione concorrente ma alleata
che è diretta emanazione di Al Qaida, anche se di recente ha cambiato nome,
passando da al-Nusra a Jabhat al-Fatah al-Sham, Fronte per la conquista del
Levante. Anche chi non conosce l’arabo troverà qualcosa di noto in una delle
parole, al-Fatah, nota finora soprattutto in Palestina. In taluni scontri anche
recenti gli attacchi di quest’ultimo “esercito” sono stati condotti
congiuntamente con le forze riconosciute, finanziate e armate dall’Occidente e
da altri sponsor come l’Arabia Saudita, ma comprendendo missili made in Usa. Si
era creato così, non per la prima volta, il paradosso massimo di questa guerra:
una “alleanza” dell’America con gli organizzatori della strage terroristica
delle Torri Gemelle a New York l’11 settembre del 2001. Paradosso conseguente a
un’intera erronea gestione della crisi siriana da parte di Washington,
cominciata con la presidenza di George W. Bush, ma mai praticamente denunciata
dalla Casa Bianca di Obama, un uomo di pace e di eccellenti intenzioni ma,
forse perché inesperto di funzioni strategiche, molto sensibile alle pressioni
di un establishment che non ha ancora detto del tutto addio alla Guerra Fredda.
Una decisione di cui il presidente uscente si è detto pentito è stata di avere
autorizzato una partecipazione americana alla “operazione” bellica in Libia che
portò all’uccisione di Gheddafi e al caos odierno in cui si sono infiltrati i
jihadisti come in un nuovo fronte della deriva islamica.
Adesso si può sperare che in Siria,
dopo tutto e dopo tanto tempo, il pendolo muova in una direzione diversa. Sia
pure con l’America che fa concessioni fino al punto di prospettare azioni
militari congiunte con la Russia. Se tutto andrà bene, o almeno in modo
decente, John Kerry potrà assegnarsi una nuova “decorazione” dopo quella per
avere scongiurato all’ultimo momento un intervento militare diretto degli Usa
in Siria tre anni fa e, più di recente, per aver portato a termine una
difficilissima mediazione verso un trattato con l’Iran. Qualcuno comincia a
rammaricarsi che egli non sia fra i candidati alla Casa Bianca. Ma questa volta
a Kerry non è nemmeno passata per la testa.