Alberto Pasolini Zanelli
Kim Jong-un ha ritirato fuori una
bandiera rossa. Non quella ideologica e dittatoriale, ma una bandierina di
quelle che dicono “stop”. Un segnale che il vertice con Donald Trump, previsto
per il 12 giugno a Singapore, potrebbe essere rinviato o addirittura
cancellato. L’annuncio è venuto proprio mentre alcuni membri della delegazione
nordcoreana stavano per partire e poco dopo un segnale venuto dai consiglieri
americani, ma preceduto da una dichiarazione cauta di Trump, il quale evidentemente
ritiene di potersi permettere un colpetto di freno perché nel frattempo ha
ottenuto qualche altro successo in politica interna, non così clamoroso come
ipotesi avanzata l’altro giorno, ma bastevole per tenere buoni gli indecisi,
mentre maturano le due settimane di tempo che restano.
Ma nel frattempo entra nel giro dei
pronostici una concreta possibilità, che il vertice venga addirittura
cancellato e che a Singapore non ci vada nessuno. Lo ha detto Trump in persona.
Ma la sua intenzione rimane quella di andarci, magari più tardi e con obiettivi
più modesti. Questo perché le parole nuove intervenute sono qualcosa di più
delle frasi risonanti che il dittatore di Pyongyang preferisce. Gli esperti
nordcoreani lo hanno messo in guardia per pericoli concreti, il principale che
un viaggio così lontano da casa espone il presidente a un colpo di Stato
militare o almeno a dei tentativi di rubargli il posto. Inoltre gli americani
stanno alzando le richieste. Non Trump personalmente, in questo caso, ma per
esempio il nuovo Segretario di Stato Mike Pompeo ha avuto occasione di
incontrare di recente Kim e ha esposto le sue previsioni ed aspettative per una
denuclearizzazione globale della penisola coreana, uno scambio che
comprenderebbe l’allontanamento delle armi nucleari americane dalla Corea del
Sud accompagnato dall’accettazione da parte di Washington delle richieste delle
garanzie di sicurezza americane alla Corea. Ancora più pericoloso per la Corea
del Nord è considerato l’ingresso nel ristretto circolo dei consiglieri di
Trump di John Bolton, sia per il suo passato di incitamenti bellici prima che
un altro presidente repubblicano lo mandasse a casa e che Trump lo recuperasse.
Bolton, fra l’altro, ha più volte citato come esempio e “operazione felice” le
trattative condotte con Gheddafi, concluse con la promessa mantenuta dal
dittatore libico otto anni dopo di rinunciare all’opzione nucleare. Tutti sanno
che la vulnerabilità che ne è derivò aprì la strada a un golpe e a un
assassinio di Gheddafi che aveva tutte le caratteristiche del linciaggio.
Anche per questo Trump ha cercato
di tranquillizzare quelli di Pyongyang assicurando che Kim “rimarrà al potere
quali che siano gli accordi che egli sottoscriverà per la rinuncia della Corea
del Nord alle armi nucleari. Lo garantisco personalmente. Sarà al sicuro, sarà
felice, il suo Paese sarà ricco, operoso e prospero”. Promesse che paiono anche
adesso eccessive ad alcuni fra i più influenti consiglieri del presidente Usa,
che continuano a ricordargli, in privato ma anche in occasioni semipubbliche,
che del regime di famiglia di Kim non ci si può fidare e che il giovane
dittatore (avrebbe poco più di 30 anni) cerca di darsi un’immagine di potere
leader globale e anche per questo non ha intenzione reale di rinunciare all’arsenale
atomico. Ogni segnale da Pyongyang merita dunque, per la maggior parte dei
governanti americani (con l’eccezione di Bolton e, in parte, anche di Pompeo),
di essere accolto con cautela e senza l’ansia di far presto. Washington ha
finora preferito questa opzione, anche nell’ultimo incontro con Kim di
esponenti del governo sudcoreano, incluso il vertice fra Kim e il primo
ministro di Seul, Moon in quella che si chiama zona smilitarizzata e che è in
vigore dal 1953 a conclusione non ufficiale della guerra, seguita alla resa
sotto una pioggia nucleare del Giappone, di cui l’intera Corea era una colonia.
Ad auspicare una riunificazione
erano stati finora soprattutto gli occidentali, e dunque l’America che ha
tuttora una presenza militare e nucleare in Sud Corea: un privilegio che Kim
vorrebbe assolutamente abolire per garantire la continuazione del suo potere
dittatoriale, nonostante i consigli che gli vengono dai sudcoreani, dalla Cina
e, con voce molto più bassa, dalla Russia. Suscitando le speranze della Corea
del Sud, il cui responsabile per la sicurezza nazionale, Chung Eui-Yong, crede
al punto di avere dichiarato molto di recente al suo leader che “il vertice ha
ancora il 99,9 per cento delle probabilità di svolgersi”.