Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 30 maggio 2018
Solitamente, nei paesi che condividono il sistema proporzionale, le campagne elettorali polarizzano e dividono i cittadini e i partiti che, una volta chiuse le urne, vanno poi alla ricerca del compromesso necessario per formare il governo. Il cammino dell’Italia dopo il 4 marzo ha proceduto nella direzione opposta. Gli accordi fra partiti si sono dimostrati tremendamente difficili e, dopo oltre due mesi di lunghe trattative, è stato sottoscritto un patto fra i due partiti che hanno registrato un indubbio successo ma che, nella campagna elettorale, avevano avuto ben poco in comune.
Divisi sui principali capitoli cruciali (a partire dalla politica fiscale) non potevano che unificarsi su una forte posizione contro l’establishment. La saldatura fra 5Stelle e la Lega è stata perciò costruita solo su una radicale opposizione nei confronti dei pilastri fondamentali della politica seguita dall’Italia dal dopoguerra fino ad oggi, approfittando anche del malcontento provocato dalla recente crisi economica, dalla disoccupazione, dalla disuguaglianza fra ricchi e poveri e fra Nord e Sud.
Non desta quindi stupore che il braccio di ferro si sia concentrato sull’Europa e sull’Euro, cioè sulle colonne portanti della nostra politica interna e della nostra politica estera.
Costituisce perciò un precedente inedito ma non certo una sorpresa leggere nello stesso giorno un’identica presa di posizione contro la nostra politica europea (e quindi contro la decisione del Presidente della Repubblica) da parte di uno dei più autorevoli giornali russi (La Pravda) e da un altrettanto influente esponente della destra americana (Steve Bannon).
Tutto questo sta trasformando radicalmente il quadro delle prossime elezioni: non si tratta più di una contesa fra i partiti ma di un referendum fra coloro che vedono il nostro futuro insieme alle altre democrazie europee e coloro che ci vogliono fuori dall’Euro e quindi dall’Europa, come un vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro.
Siamo consapevoli degli errori e delle mancanze della politica europea degli ultimi anni ma siamo altrettanto consapevoli che, solo con la costruzione europea, si è formata l’Italia moderna e si è per la prima volta garantita la pace al nostro paese per un periodo di tre generazioni.
Un referendum non può tuttavia guardare al passato ma al futuro e deve mettere il cittadino italiano di fronte alle nefaste conseguenze che l’uscita dall’Euro e la rottura dei legami con l’Europa porterebbero alla nostra economia e alla nostra sicurezza.
Ed è altrettanto evidente che, proprio perché si tratta di un referendum, la necessità di uno stretto ancoraggio alle democrazie europee non può essere portato avanti da un solo partito ma deve trovare impulso in un ampio arco di forze politiche e sociali.
La posta in gioco è così grande che obbliga i leader vecchi e nuovi che condividono questo vitale obiettivo a mettere da parte i loro interessi e le loro posizioni precostituite. E bisogna che essi si rendano conto che, per riunificare e rilanciare il nostro paese, non bastano i frutti di un’eventuale maggiore crescita ma occorre elaborare finalmente una nuova strategia volta al raggiungimento di una maggiore giustizia sociale.
Ed è anche ora che i responsabili politici europei si rendano conto che, senza l’Italia, non vanno da nessuna parte. Non pretendiamo assolutamente di essere autorizzati a violare le regole che abbiamo liberamente sottoscritto ma che i governati tedeschi, anche se non possono fare nulla nei confronti degli eccessi della loro stampa, inducano a maggiore prudenza il Commissario Oettinger, affinché non appaia ignorare le regole della vita democratica dei paesi amici.
Una sovranità che può essere difesa solo con il rispetto delle reciproche regole e che, da parte nostra, non chieda ai nostri partner la ridicola e impossibile cancellazione di una cospicua parte del nostro debito ma che presenti una strategia credibile di rinnovamento della nostra economia e metta altrettanto credibilmente in rilievo i nostri punti di forza, a partire da un attivo della nostra bilancia commerciale che la Francia non si sogna nemmeno di avere.
La difesa di queste nostre legittime posizioni non può essere però portata avanti da chi pensa di stampare moneta come un paese sudamericano o intenda programmare spese che implicano oltre 100 miliardi di deficit.
Nella prossima campagna elettorale i partiti e le forze sociali si pronuncino quindi su come vogliono uscire o come vogliono rimanere nell’Euro e sulle conseguenze di queste decisioni. Abbiamo finalmente bisogno di una campagna elettorale non fondata sulle favole o sui sogni impossibili ma che prepari a prendere una decisione chiara e definitiva sul destino nostro e dei nostri figli.