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Non si farà, per ora


Alberto Pasolini Zanelli

Non si farà, per ora, il vertice fra gli Stati Uniti e la Corea del Nord. L’annuncio ufficiale è venuto con una lettera di Trump a Kim Jong-un, che si apre con “Caro Presidente” e culmina con un monito nella forma di una raccomandazione al regime di Pyongyang che non è meno di un ultimatum: “Lei parla delle Sue capacità nucleari, ma le nostre sono massicce e tanto potenti che io prego Dio di non essere mai obbligato ad usarle”. C’è una contraddizione evidente dei toni oltre che della sostanza che si può riassumere così: “Io al vertice non ci vengo. Lo cancello”. Con altri protagonisti sarebbe stata una tale sorpresa intrisa di una minaccia con pochi precedenti nella storia ma che in questo caso era stata preceduta da avvertimenti, culminati dalla Casa Bianca in un “programma”: “Fuoco e tempesta”. Un ultimatum senza paragoni, non solo formali, nella storia o almeno in questo “settore” che è l’era nucleare.

Già da un paio di giorni si parlava, magari sotto voce, di un rinvio del vertice e dell’appuntamento a Singapore per il 12 giugno. L’ultima spinta, secondo Trump, è una recente dichiarazione della controparte che ha rivelato una “tremenda ira e aperta ostilità”. Frasi che appaiono inconciliabili con la preparazione di un summit. Ma toni non molto differenti erano venuti negli ultimi giorni anche da parte degli Stati Uniti. In particolare nelle parole del vicepresidente Pence e nelle reazioni da Pyongyang, che contenevano una definizione di “stupido” nei confronti del numero due di Washington, uomo di solito noto per i suoi prudenti silenzi. Una sorpresa che probabilmente contiene una sua spiegazione, per i toni e anche per il momento. Due giorni prima del giudizio espresso dal vice di Trump una serie di concetti analoghi erano stati esposti dall’ultimo esponente della Casa Bianca, appena nominato da Trump e apertamente ostile a ogni trattativa con Kim. Non una sorpresa, questa. L’oratore in questione si chiama John Bolton ed è il più famoso “falco” della classe dirigente americana. Esso conteneva anche e soprattutto un paragone fra le trattative in corso con la Corea del Nord e quelle condotte qualche anno fa con la Libia, sempre sui timori di Washington dell’acquisizione dell’arma nucleare da parte del dittatore di Tripoli, Gheddafi. Le trattative erano durate a lungo, ma si erano chiuse con un successo pieno: Gheddafi aveva rinunciato totalmente ad entrare nel campo dell’arma atomica e l’America aveva ricambiato sospendendo ogni forma di pressioni contro la Libia, a cominciare dai boicottaggi commerciali. Pochi anni dopo, però, scoppiò una rivolta contro il dittatore, che fu appoggiata militarmente e apertamente da alcuni Paesi della Nato, tra cui gli Stati Uniti, con incursioni mirate personalmente a Gheddafi, che fu poco dopo torturato e ucciso. Una citazione, quella di Bolton, che conferma le sue idee e strategie raccomandate.

Anche il ministro americano della Difesa aveva espresso opinioni consimili, ma con toni un po’ più cauti, ma non è escluso che possano però aver contribuito a spingere i due opposti presidenti a uno scontro verbale con pochi precedenti. Per quanto riguarda Trump va ricordato che egli ama scegliere i toni forti, durante la campagna elettorale e anche dopo, dalla Casa Bianca.