Alberto
Pasolini Zanelli
L’arma quasi
assoluta è forse sul punto di decollare in una direzione che molto
probabilmente è quella degli Stati Uniti, il cui mittente è Kim Jong-un e che
verrebbe ricambiata, molto presto, anche questo, da Donald Trump. Si tradurrebbe
in realtà, dunque, la profezia fatta e ripetuta parecchie volte dal dittatore
nordcoreano per cui la Superpotenza risponderebbe, come la Casa Bianca aveva
minacciato quest’anno, quasi un giorno e un giorno no.
Tutto chiaro,
dunque? Sì, anche se è bene precisare un dettaglio molto importante e
significativo: non si tratterebbe di un missile nucleare, bensì di un premio
Nobel. È una previsione alquanto surreale, ma Kim l’ha comunicata in modo
esplicito e Trump pare l’abbia implicitamente confermata. L’uomo di Pyongyang è
stato preciso: se gli Stati Uniti non impediranno un riavvicinamento fra le due
Coree che assomiglierebbe quasi a una riunificazione o almeno alla conclusione
giuridica di una guerra cominciata nel 1950 e messa in folle nel 1953, allora
la Corea del Nord “sospenderà” il suo armamento nucleare. Anzi, lo ha già
sospeso e quindi ci sarebbero già le condizioni per una pace, anzi tre. Uno,
tramite la riunificazione fra le due Coree, che non sono state insieme neppure
un giorno dal 1945 ad oggi. Due, un trattato quasi di alleanza fra la Corea
riunificata e l’America. Tre, la consegna ai protagonisti dell’accordo di un
premio Nobel a testa. Una serie di belle notizie, cui si fa comprensibilmente
molta fatica a credere. Ma non è escluso, anzi è probabile, perché
nell’interesse di quattro Paesi e almeno tre capitali: Pyongyang, Seul, Washington,
con vantaggi collaterali per il Giappone, forse per la Cina e, perché no, per
la Russia.
Rassicuriamo il
lettore che non si tratta di un raccontino di fantascienza, ma di una ipotesi
molto realistica. Per formularla, basta ripetere l’insieme dei passi compiuti
dai due protagonisti durante l’inverno e dentro la primavera, solo capovolti.
Nessun ostacolo, vantaggio per tutti e soprattutto per la causa della pace, che
è diventato un rito annuo da quasi un secolo e che nel 2019 non dovrebbe avere
ostacoli.
Ne è rimasto
formalmente uno, che è la Norvegia, “proprietaria” del Nobel per la pace, in
società con la Svezia, ricordo di quando i due Paesi erano uniti. La previsione
non è ancora ufficiale e potrebbe non esserlo mai nel protocollo, mantenendo e
anzi consolidandosi. Lo hanno detto quasi esplicitamente entrambi i
“belligeranti”, sorprendendo un po’ tutti. Prima di tutto perché, lo
riconoscono in tutta l’area e nel resto del pianeta, “non sono il tipo”.
Pyongyang ha prodotto finora una dittatura al cui confronto l’Unione Sovietica
era una blanda socialdemocrazia, Washington ha rifornito il sogno di Alfred
Nobel con molti candidati e, ancora di recente, un presidente di nome Obama. L’erede
nominale di Trump, che ha passato il suo primo anno e mezzo di potere
crocifiggendo tutte le sue iniziative di politica estera.
Perché sembrano
entrambi inclinati a farlo? Perché è nell’interesse dei rispettivi Paesi,
certo: ma anche per qualcosa che entrambi considerano quasi altrettanto importante:
il proprio potere, la propria popolarità. Il mondo è a questo punto infatti
concorde nel considerarli pericoli per la pace. Per i coreani è intuibile, gli
americani stentano a crederci, ma ne sentono la necessità. Cercano, semmai, una
spiegazione. Che probabilmente c’è: lapidato di allarmate disapprovazioni
dall’America e dal resto del pianeta, sembrano però avviati a prendere sul
serio la mossa della Casa Bianca. Anche perché l’attuale presidente ha fornito
una motivazione esplicita e, nonostante tutto, razionale e credibile. Kim gli
avrebbe assicurato di essere pronto a smilitarizzare il suo apparato
dittatoriale se gli americani gli prometteranno di ritirare le proprie forze
dalla Corea del Sud. Troppo bello, forse, per bastare. E infatti una sarebbe
quasi pronto un do ut des più arduo
ma più immediato: niente atomiche Usa su Pyongyang, ma la conferma
dell’intenzione di spedircele se la costellazione mondiale rinuncerà al proprio
veto a un’azione militare contro l’Iran. Una condizione che gli Stati Uniti
hanno accettato in un documento firmato da Washington e da Teheran, ma anche da
altri Paesi di elite militare o politica: la Cina, il Giappone e potenze
europee, inclusa la Russia. Una firmetta ce l’ha messa anche l’Italia, per mano
di Federica Mogherini, ministro degli Esteri d’Europa.
Detto così, non
sembrano esserci ostacoli insuperabili. Invece i firmatari (e gli altri)
manifestano una comprensibile diffidenza e, prima di tutto, non riconoscono a
nessun Paese firmatario il diritto di infrangere il patto raggiunto
collettivamente. E certo l’America avrebbe da guadagnare da questo do ut des, soprattutto sul terreno del
Medio Oriente, su cui Donald Trump sembra deciso a inaugurare la realizzazione
del suo slogan elettorale: “America First”.