Alberto Pasolini Zanelli
Così si estende, con più rapidità che
prudenza, il “mondo nuovo” che Donald Trump sembra deciso a costruire sulle
ipotetiche rovine di quello vecchio, forgiato in settant’anni da altri
presidenti americani. Egli mostra di avere fretta, come se non si fidasse dei
suoi concittadini e dei politici. Se il numero dei cambiamenti fosse l’unica
forma di giudizio, Trump avrebbe già superato non solo Barack Obama, ma anche
inquilini più antichi della Casa Bianca: due Bush, George H., che con prudenza
seppe costruire il nuovo mondo dopo il crollo del comunismo e George W., che
diede la prima scossa a quel prudente disegno cacciandosi nell’avventura
irachena. E Reagan, Kennedy, Eisenhower, con iniziative fortunate e felici. Può
darsi che la principale ambizione di Trump sia fare le cose in fretta e questa
capacità non gli si può negare. Anche se è costruita con una serie di
capovolgimenti.
La più accelerata è il disegno riguardante
la Corea del Nord e il suo presidente Kim Jong-un, passato in meno di due
settimane dal ruolo di Diavolo incarnato a quello di amico ben intenzionato. Così
il suo angolo di Asia sembra essere diventato un modello da imitare per tutti
quei Paesi che in qualche modo disturbano o irritano gli Stati Uniti. La
“strategia degli abbracci” non può però essere applicata proprio a tutti: c’è
chi ci guadagna, ma anche chi ci rimette. Il paragone più visibile è quello del
confronto fra la Corea del Nord e l’Iran. La prima di cui si è avuta paura per
un paio di mesi è stata il pericolo numero uno, mentre del secondo si parlava
relativamente poco. Poi in pochi giorni Kim Jong-un è diventato un esempio di
ragionevolezza, mentre Rouhani ha recuperato la corona del Male. Ci si chiedeva
quando, o se, sarebbe scoppiata una guerra nucleare nell’Asia Orientale. Invece
è arrivata la pace che fra pochi giorni sarà solennizzata da un abbraccio fra i
due nuovi “soci”.
Gli annunci sono venuti addirittura
a distanza di poche ore: la rinuncia dell’America a mettere con le spalle al
muro la Corea del Nord e di metterle invece al più presto possibile all’Iran.
In parte vi si è già proceduto con il ritiro di Washington da un trattato
internazionale firmato da sette Paesi: America e Iran. Ma anche Cina, Russia,
Francia, Gran Bretagna e Germania. Una decisione unilaterale senza un impegno concordato
con i soci: con tutte le conseguenze nel Medio Oriente. Quasi ad imitazione di
un altro gesto solitario: il ritiro di Washington dal patto stipulato a Parigi mesi
fa sul terreno dell’economia mondiale. Più altri gesti di proporzioni e
conseguenze minori. Due dei quali ci riguardano da vicino come europei e non
sembrano contenere clausole che possano agevolare una ripetizione a rovescio
del caso coreano.
Ma questa “assenza” ha pochi
precedenti fra alleati: le poche volte che si è profilata per poi rientrare,
riguardava uno o due “soci”. Questa volta a protestare sono stati tutti i Paesi
colpiti ma soprattutto quelli dell’Europa occidentale. In questo Trump è stato fedele,
più alle minacce che non alle promesse: anche il suo primo gesto di politica
internazionale è venuto a poche ore dal suo insediamento e ha riguardato
soprattutto l’Europa. I suoi leader le hanno provate tutte per ottenere se non
una cancellazione almeno una revisione. Il più “coraggioso” è stato il
presidente francese Emmanuel Macron, che è volato in fretta e con Trump ha
scambiato parole ma anche abbracci e carezze. Letteralmente e inutilmente.
Inglesi e tedeschi sono stati meno coraggiosi ma più prudenti, due qualità
fortunatamente non richieste in questo momento a un’Italia senza governo. Qualcuno
l’aveva prevista questa “dichiarazione di guerra” istantanea e indicativa delle
intenzioni di Trump, delle sue convinzioni e del suo carattere. I benevoli
entusiasmi sono riservati a Pyongyang; che Londra, Berlino e Parigi si
arrangino e così gli europei “minori”.
Molti se lo aspettavano, americani
più che europei. Le critiche sono state e sono aspre anche se condite da
argomenti meno direttamente politici che la “guerra di difesa” della “vecchia
America”. L’America politica ha usato parole crude e senza precedenti. Compreso
uno scrittore famoso e raffinato come George Will. Egli ha inventato la parola “leccasputi”
per deplorare come servilismo la fedeltà verso Trump proclamata dal
vicepresidente. Un senatore repubblicano, eroe di guerra pluridecorato,
catturato dai nordvietnamiti, prigioniero per cinque anni e torturato, ha
richiesto che ogni forma di tortura venga messa al bando dalle agenzie di
spionaggio americane; altrimenti voterà contro. Gli hanno risposto che non
importa che cosa egli pensi, dal momento che ha il cancro e “sta morendo”.