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Ha guidato con successo due mogli




Alberto Pasolini Zanelli

Ha scavalcato i cent’anni di età. Ha guidato con successo due mogli. È stato il braccio destro di tre presidenti variamente famosi come Nixon, Reagan e Bush, ma è con il secondo di questa serie che George Shultz ha conquistato e meritato le glorie che vengono adesso rievocate quasi all’unanimità nell’occasione della morte e nel centenario della vita. Ha cominciato la carriera da giovane e ha scalato tutti i gradini fino a diventare Segretario di Stato nel momento in cui il suo ruolo comportava più rischi ma offriva di più.

Il suo primo boss fu Eisenhower nell’immediato dopoguerra e Shultz cominciò ad occuparsi di armi nucleari ma anche di problemi climatici. Era convinto fin da giovane che “il dovere dell’America è quello di guidare il mondo” ed egli ebbe più volte l’allarmante impressione che il governo di Washington dimenticasse, almeno in parte, questo compito. Egli sopravvisse alla presidenza Nixon che non fu senza meriti ma andò alla tomba con uno scandalo, quello ancora famoso del Watergate. Shultz non ne fu travolto né collegato e, quando i repubblicani tornarono alla Casa Bianca con Ronald Reagan, egli cominciò una “carriera interna” che lo portò al vertice di Segretario di Stato a guidare la fase del più importante successo diplomatico di Washington dopo la guerra mondiale e l’apertura della Guerra Fredda. Il sentiero per raggiungerla fu lungo e a tratti faticoso, ma Reagan aveva le idee chiare e una posizione di potere invidiata e inimitabile. Ciò non toglie che anche lui abbia attraversato momenti difficili all’interno (un traffico di armi con un Paese sudamericano retto da una dittatura) ma sopravvisse: l’America e il mondo tornarono a concentrare l’attenzione sulle trattative con la capitale di un Paese cento volte più potente e contemporaneamente antagonista e protagonista.

Il passaggio forse più arduo sul piano economico e soprattutto militare fu quello successivo all’incontro in realtà decisivo, nella “vergine” Islanda, dai cui ghiacci maturò la Distensione, con l’accordo per la riduzione degli armamenti, soprattutto nucleari. Spuntò anche un’amicizia altrettanto e forse ancor più rara, quella fra Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov. Criticata negli Usa e in Occidente, difesa senza pugni sul tavolo ma con argomenti efficaci da George Shultz. Di cui il Presidente riconobbe i meriti senza alleviarne i doveri, anche i meno essenziali. Ricordo un vertice dei Sette a Venezia, con la partecipazione di tutti i Grandi, con sedute plenarie e contatti personali. Shultz trovò anche il tempo di invitarmi a colazione, che potrei definire “intima” perché eravamo in tre. Non mi spiegò il mondo. Cercò la conferma che un giornalista in più ne avesse capito qualcosa. Era parte di un’atmosfera operosa ma anche rilassata, su uno dei tavoli lisci su cui chiacchiere e rivelazioni anche importanti scivolavano nutrite di buone notizie: il ritiro delle forze armate sovietiche dall’Afghanistan, l’accordo fra Mosca e Washington sulla dimensione nucleare e, poco più tardi, lo scioglimento dell’Unione Sovietica e la rinascita delle Russie, la principale delle quali guidata per qualche tempo ancora da Gorbaciov e poi da Boris Eltsin, di buona volontà, amico sincero di Shultz e che ha avuto per successore un interlocutore più difficile come Vladimir Putin.

A quel punto Shultz aveva iniziato il cammino di un ritiro misurato e sempre nutrito di buona volontà e di capacità. Degno di Reagan, almeno quanto lo fu del suo interlocutore storico. Quando Reagan morì e fu seppellito, Gorbaciov teneva la mano posata sulla bara con le lacrime agli occhi. Meritate da entrambi, ma anche da George Shultz.

Pasolini.zanelli@gmail.com

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