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Solo vincendo la scommessa sul Pil potremo “dare i numeri” su debito e salari



L’anno che verrà – la scommessa sul Pil per “dare i numeri”

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero 

Quando, nelle scorse analisi di fine d’anno, si cercava di riflettere sul futuro dell’economia, lo sforzo intellettuale si concentrava nel trasferire in numeri le probabili future evoluzioni delle maggiori variabili economiche, a partire dall’andamento del PIL per passare ai dati sull’inflazione, sull’occupazione e così via.

Credo che, quest’anno, il compito di “dare i numeri” debba essere inteso non in senso scientifico, ma nel linguaggio familiare di quest’espressione, che si fonda più sulla follia e la temerarietà che non su un’analisi ragionata delle variabili in gioco.


Mai come oggi siamo condizionati da eventi non prevedibili, che nulla hanno a che fare con l’economia.

Siamo infatti ancora sotto l’effetto del Covid che, in tutto il mondo occidentale, sta trasformando il mercato del lavoro e appare dominante sul presente e sul futuro dell’economia cinese. Ancora più difficile è prevedere l’estensione e la durata della guerra di Ucraina, che tanto ha inciso e tanto inciderà su tutti i comportamenti economici.

Tuttavia non deve essere mai dimenticato che non è stata la guerra a innescare il fenomeno inflazionistico che tanto ci preoccupa, perché l’inflazione era già iniziata in precedenza. L’aumento dei prezzi dell’energia ha trovato infatti la sua origine in una lunga caduta degli investimenti nelle fonti tradizionali, accompagnata da una crescita più lenta del previsto delle nuove energie. E’ stata però la guerra a trasformare l’aumento dei prezzi in una loro esplosione, soprattutto per quanto riguarda il gas.


Questo tragico conflitto ha provocato un crollo senza precedenti nell’offerta dei beni e ha sconvolto i rapporti economici fra paesi produttori e paesi importatori, in particolare fra l’Europa e gli Stati Uniti e all’interno degli stessi paesi europei, ciascuno dei quali vuole ancora conservare una politica energetica autonoma.

Questi eventi, non certamente prevedibili, si sono inseriti in una crescente crisi dei rapporti commerciali fra i grandi protagonisti dell’economia mondiale, provocando ulteriori situazioni di scarsità in settori di vitale importanza, a partire dai componenti elettronici essenziali per il funzionamento di molte importanti filiere produttive.

Non ci dobbiamo quindi meravigliare che questo crescente groviglio di problemi abbia provocato un processo inflazionistico a cui le autorità mondiali hanno reagito con colpevole ritardo, ritardo causato dalla difficoltà di interrompere la politica di “moneta facile” e dal fatto che decenni di prezzi sostanzialmente stabili avevano portato alla sottovalutazione del fenomeno inflazionistico. Parlo di “colpevole” ritardo proprio perché, per lunghi mesi, l’aumento dei prezzi è stato interpretato come “temporaneo”. Di conseguenza non sarebbe stato necessario adottare una politica monetaria restrittiva.


Il ritardo ha quindi obbligato a fare uso di un freno più severo, che oggi provoca dibattiti e controversie senza fine. Si possono certo criticare dichiarazioni inopportune e previsioni azzardate da parte dei responsabili della BCE, così come si può discutere su qualche decimale in più o in meno nei tassi di interesse da applicare, ma l’attuale inflazione ha raggiunto livelli allarmanti, di fronte ai quali il freno della politica monetaria è purtroppo inevitabile.

Data la complessità e l’imprevedibilità degli eventi descritti in precedenza, risulta evidentemente difficile “dare i numeri” su quanto durerà la frenata e quali saranno le conseguenze sull’economia reale. La Banca d’Italia prevede che finiremo l’anno in corso con un PIL in aumento di un ottimo 3,8%, per passare l’anno prossimo allo 0,5%. Non si tratterebbe quindi di una vera e propria recessione, ma di una stagnazione, con due trimestri di maggiore difficoltà. Abbiamo evidentemente tutte le ragioni per fidarci di queste previsioni che, per altro, sono assai simili a quelle dei maggiori paesi europei.


Il problema è tuttavia che, in ogni caso, questi dati si accompagnano ad un tasso di inflazione a due cifre, in un paese in cui il livello salariale è fermo da oltre quindici anni e nettamente inferiore a quello dei paesi europei con un costo della vita paragonabile al nostro. Un’inflazione che colpisce le categorie più deboli il doppio di quanto non incida sui più ricchi, anche perché i prezzi dei beni fondamentali, a partire dal pane, sono aumentati molto più dei costi affrontati per produrli: una realtà sulla quale non abbiamo riflettuto abbastanza.

Nello stesso tempo i crescenti tassi di interesse e i costi dell’energia rendono impossibile un aumento della spesa pubblica compatibile con la necessità di tenere sotto controllo il rapporto fra debito e PIL. Come suggerisce il recente supplemento dedicato dall’Economist al nostro paese, il futuro italiano non dipende solo dal controllo del debito (cioè il numeratore) ma soprattutto dalla crescita del PIL (cioè il denominatore).

In parole semplici ci viene detto che siamo sostanzialmente costretti a mettere in atto una politica del bilancio pubblico che, nel suo dato macroeconomico, deve percorrere una strada obbligata dai condizionamenti esterni e dalle particolari caratteristiche del nostro debito pubblico, mentre dobbiamo inventare una strategia innovativa per aumentare l’efficienza del nostro sistema economico.


I passi obbligati per avvicinarsi a quest’obiettivo consistono nell’aumentare la produttività delle piccole imprese, promuovere un più moderno sistema scolastico, una giustizia più veloce, una maggiore partecipazione femminile al mondo del lavoro, un maggiore investimento nella ricerca e una lotta senza quartiere all’evasione fiscale.

Non siamo certo di fronte a suggerimenti nuovi o inconsueti perché si tratta delle famose “riforme” delle quali si parla da decenni, senza fare significativi passi in avanti.

Non c’era certo bisogno di un autorevole e corretto suggerimento esterno per ricordarci di come stanno le cose. Il problema nasce dal fatto che, come è stato ancora reso evidente dal dibattito parlamentare sulla legge finanziaria, vi è una spontanea convergenza dell’opinione pubblica (e dei parlamentari che la rappresentano) nell’innalzare il numeratore, mentre non vi è nessun accordo su come fare crescere il denominatore.


Naturalmente vi sono spinte politiche divergenti su quali capitoli aumentare o diminuire la spesa pubblica ma, alla fine dei conti, i margini di variazione nel risultato finale sono estremamente limitati, o forse nulli. Un accordo finisce quindi con il dover essere raggiunto in termini tali da non provocare rotture insanabili con il contesto europeo in cui ci troviamo ad operare.

I gradi di libertà sono invece quasi infiniti nelle riforme che rendono possibile l’aumento del denominatore, cioè il PIL. Tutti sono d’accordo che queste riforme debbano essere fatte, ma il disaccordo su come realizzarle, le ha rese fino ad ora impossibili. Si tratta infatti di un compito che non può esserci né imposto né proposto dall’esterno e che dobbiamo risolvere solo all’interno del nostro sistema istituzionale. A maggiore ragione diventa perciò difficile fare precise previsioni sul prossimo anno e siamo quindi costretti “a dare i numeri” nel senso popolare del termine, sperando però che una sana follia collettiva trasformi questi sogni in realtà.

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