ITALIA-GERMANIA: 314 a 278
( Ma non a calcio)
No, non si tratta questa volta di una sonora
lezione di calcio (l’ennesima, ma con un risultato ancor più esorbitante a
nostro favore!) impartita dalla nazionale italiana a quella tedesca.
Si tratta invece del valore del debito totale
italiano (pari al 314 % del proprio PIL) rispetto a quello tedesco (pari al 278
% sempre del PIL): debito che ci vede, ‘sta volta, “perdenti” di 36 punti (percentuali).
Che non sono, però, affatto molti – eccoci al punto – per due precise ragioni.
Innanzitutto perché, rispetto ai debiti del
Giappone (512 % del PIL!) e del Regno Unito (507 %!) - cioè quelli rispettivamente
della seconda e della quinta potenza industriale del mondo - sono
complessivamente entrambi superiori a poco più della metà.E poi perché sia il debito delle famiglie italiane (45%), sia quello delle imprese finanziarie sempre italiane (76%) sono entrambi ben inferiori – udite udite!- a quelli delle famiglie e delle imprese finanziarie tedesche, rispettivamente pari al 60% e al 87% del loro PIL. E quindi qui ri-vinciamo noi.
Tutto ciò significa che, quando si parla di crisi, di spread e di austerità, bisognerebbe una buona volta considerare il debito nel suo complesso e non guardare solo alla sua componente pubblica, peraltro oggettivamente disastrosa nel bilancio italiano (111% del PIL, contro l’83 % della Germania).
Perché non si può parlare del debito pubblico
di un paese senza considerare insieme la sua posizione complessiva debitoria e
creditoria nei confronti dell’estero, cioè la sua solvibilità internazionale.
Nessun paese, infatti, con un alto deficit
pubblico ma con un basso deficit della propria bilancia commerciale sull’estero,
potrà vivere mai una crisi finanziaria. Mentre il caso contrario è sempre causa
di crisi.
A questo deve perciò puntare l’Italia: a una
bilancia commerciale in attivo sull’estero, laddove le sole manovre di
riduzione del deficit pubblico – quelle oggi in corso – possono aumentare il peso
del debito stesso.
Troppe tasse, pochi investimenti pubblici in
sviluppo ed eccessive riduzioni delle garanzie a favore dei lavoratori possono
causare, ed infatti hanno causato, una riduzione della domanda interna con
conseguente calo dell’attività produttiva e quindi del PIL.
Ma per quale motivo un ragionamento così
semplice, basato su dati ed evidenze, in Europa (e dalla Germania per prima) non
viene preso in considerazione? Nonostante moltissime siano ormai le voci e le proteste in questo senso?
Perché questa incompleta e rattoppata Europa,
basata solo sull’euro e non su una politica complessiva comune, ha paura di
affrontare nuovi equilibri e di dover modificare l’attuale divisione e
spartizione dei poteri (quello industriale alla Germania, quello finanziario alla
Gran Bretagna, quello delle banche alla Francia).
Né un governo pseudo tecnico o pseudo politico
come è quello “da ultima spiaggia” guidato oggi da Monti, può pensare di
capovolgere senza il più ampio consenso dei cittadini – e quindi attraverso un
passaggio elettorale - una situazione Paese così delicata.
Detto questo, qualsiasi soluzione sarà però sempre
migliore rispetto alla possibilità di un governo in cui il premier sia ancora
una volta un inconsistente toupet,
cioè un finto premier.
Con questo rischio sarebbe infatti senz’altro
meglio tenere lontani dal voto (il più a lungo possibile, fino a raggiunta
maturazione) quegli italiani, anzi no,
quegli “italieni”, cui non è bastato lo scempio di credibilità fatto del nostro
Paese dal precedente governo. Una specie di governo, che si è retto più sulle
competenze tecniche di Scilipoti e
Gasparri e sulle abilità professionali di
un gruppo di signorine formatesi nella prestigiosa scuola di partito
dell’Olgettina, che su quelle di una vera classe politica con a cuore
l’interesse generale del Paese.
Alessandro Petti
(Rome-Italy)
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