Alberto Pasolini Zanelli
da Detroit
“Detroit, la Grecia
d’America”. La scritta evocatrice e drammatica non compare sui muri della
città. Sono i giornali nazionali che la adottano. Un paragone che descrive ma
non risuona nei cuori della gente di qui, più angosciati che irosi. Non volano
sassi a Detroit, la metropoli che ha dichiarato bancarotta, che è andata più
avanti, o più in giù, del riconoscimento del proprio disastro di quanto sia
stato costretto a spingersi, finora, nessun Paese dell’Europa pur indebolita
dalla crisi e torturata dall’Austerity.
E qui non dipende
però da scelte politiche nazionali o addirittura supernazionali bensì da
decisioni più o meno locali. È stato lo Stato del Michigan, governato dai
repubblicani, a “scaricare” la sua città più popolosa, da sempre amministrata
dai democratici. “Bancarotta” suona per la metropoli come una di quelle sentenze
senza pietà di cui i tribunali americani hanno il segreto. La bancarotta dovrebbe,
forse potrà, mettere a posto il disastroso bilancio cittadino, ma non tenta
neppure di risolvere i problemi che ne sono alla radice: i disinvestimenti
privati, le istituzioni pubbliche fallite, la disoccupazione galoppante, la
povertà, il tracollo dell’istruzione, l’isolamento da ghetto dei residenti,
soprattutto anziani. Diciannove miliardi di dollari è la cifra di questa
bancarotta che non guarisce ma descrive Detroit. Le gigantesche aree lasciate
marcire o crollare o ritornare alla natura: sessantamila unità di terra
vacante, settantamila edifici vuoti (compresa la stazione centrale),
settecentomila cittadini privati dei servizi pubblici più elementari e travolti
dalla criminalità. Sono quasi tutti di pelle nera. Il valore medio di una casa
a Detroit è di ottomila euro (con questi la si potrebbe comprare), il valore
dell’intera città è al di sotto dei sette miliardi, sempre di euro. Quaranta
cittadini su cento vivono al di sotto del livello ufficiale di povertà, le
infrastrutture sono sparite. Metà dell’illuminazione pubblica è spenta, la
polizia è senza soldi e senza benzina. Ha le tasche così vuote che a una
chiamata di emergenza risponde in media dopo un’ora. Perfino il recupero dei
cadaveri trovati sulle strade richiede molte ore. “Funziona meglio Bagdad”,
racconta un veterano. Raccontano anche di casi in cui ci si è liberati del
corpo, per risparmiare, “ricoverandolo” in una casa abbandonata e dando fuoco.
Di nome, è la
stessa Detroit che dominò il mondo subito dopo la seconda guerra mondiale. Era
il modello trionfale dell’America e del suo sistema. Tre grandi case
automobilistiche, la General Motors, la Ford e la Chrysler, coprivano il novanta
per cento del mercato così come la potenza Usa dominava il mondo. Detroit era
anche un simbolo e un sogno: in un paio di decenni la sua popolazione era
“esplosa” da meno di trecentomila abitanti a un milione e ottocentomila. I
salari degli operai dell’automobile erano i più alti del mondo, le garanzie
sociali esemplari. Detroit fu la prima città del pianeta in cui i “colletti
blu” nelle fabbriche compravano la maggior parte delle auto prodotte. Quell’esempio,
che sembrava un mito ma era reale, contribuì anche alla sconfitta del mito di
carta del comunismo, “stracciandolo” proprio nel tenore di vita della “classe
operaia”.
Che è successo? Diverse
cose. Ma soprattutto una. Concause furono la tensione razziale (Detroit
diventava sempre più “nera”, scontri sanguinosi vi furono nel 1943 e
soprattutto nel 1967 e accelerarono la “fuga” dei bianchi verso i “sobborghi”.
C’era instabilità ma non declino. Quello venne a causa di un fenomeno nazionale:
la deindustrializzazione. E poi di un fenomeno mondiale, la globalizzazione.
Gli economisti esaltavano la “distruzione creativa” che avrebbe esportato il
benessere al Terzo Mondo ma, questo lo sussurravano soltanto, importato miseria
dal Primo. Detroit, capitale dell’automobile che, in sostanza, “si faceva solo
lì” si trovò gradualmente nelle condizioni delle famose fabbriche di Boston all’inizio
del secolo scorso, quelle che producevano le migliori carrozze e le più
pregiate fruste nel periodo in cui i cavalli smisero di essere il mezzo di
trasporto prediletto.
E adesso il
deserto, o quasi. Compreso il divorzio fra due entità che parevano gemelli
monozigoti, Detroit-la città e “Detroit”-l’industria dell’auto. La seconda se
ne andò a poco a poco “in campagna”, nei sobborghi. Fu lì che dovette
combattere la crisi della concorrenza (giapponese, europea, cinese, coreana) cui
sembrava sul punto di soccombere ma che ultimamente ha dato segni di resistenza
se non di ripresa. I suoi salvatori parlano, è una oasi del nostro pensiero,
italiano, la Fiat che assorbe la Chrysler sarebbe stata fantascienza anche
molto dopo il secondo dopoguerra. C’è “ripresa”, comunque, o almeno speranza.
Ma Detroit-la città non ne è parte. Continua a vuotarsi, a mostrare che non ci
sarebbe più bisogno di lei. La popolazione se ne va, compresa stavolta quella
di pelle nera che vi era affluita nei decenni del boom. Arrivano, è vero,
immigranti nuovi, troppo pochi per riempire tutte quelle case in rovina e da
posti improbabili. Sono arabi, operai, piccoli commercianti. Hanno deciso di
giocare lì le loro carte. Lo Stato del Michigan ne ha la massima concentrazione
negli Usa e si vede anche dai risultati elettorali. Ma non sono soli. C’è
qualche area della Città Desolata che fa eccezione, che ha ancora luci e attrae
perfino visitatori. Visitano il Detroit Institute of Arts, ammirano nei murales
di Diego Rivera scene di vita della Ford al tempo del suo massimo splendore,
sostano in caffè alla moda, guardano qualche casa che viene ammodernata e
ricostruita. È un piccolo settore della Detroit che fu, si chiama
“centrificato”. Qualcuno ha riesumato per descriverlo dei versi di Carl Sandburg:
“Parlo di nuove città e nuova gente”. Per qualcuno si chiama Barack Obama.