Alberto Pasolini Zanelli
I periodi di pace,
di questi tempi, non si raccontano nei libri ma si controllano sul cronometro.
L’ultimo, in quel pezzetto di Palestina che si chiama Gaza, è durata dodici
ore: l’idea di prolungarlo è stata subito respinta da entrambi. La stessa
parola “armistizio” sta raggiungendo la già scartata “pace” nel cestino dei
ricordi.
È la guerra dei
missili e dei tunnel, strumenti modernissimi e tattiche di tempi remoti. Nell’ultimo
secolo c’è un solo precedente, vecchio di sessant’anni ma tuttora in funzione. Per
ritrovare le caverne artificiali di Gaza, bisogna saltare all’estremo opposto
dell’Asia: alla Corea. Non in una striscia sovraffollata schiacciata tra il
deserto e il mare, ma in mezzo a delle montagne davvero rocciose. Non “rifugio”
di belligeranti clandestini, bensì “porte” per scavalcare, dal di sotto, una
frontiera fra due Stati sovrani. Costituiscono una sorta di prolungamento di un
confine che emerge in superficie e che ha il suo centro in una località
chiamata Panmunjon. Una frontiera surreale, che corre attraverso un edificio,
una stanza, un tavolo. Di qua è Corea del Sud, di là Corea del Nord. Negli
angoli di quella stanza senza tempo bivaccano sentinelle che si guardano negli
occhi senza ammettere di vedersi.
Sottoterra, invece,
si cercano da decenni: sotto le rocce, in una dinamica che surrealmente
richiama le strategie della guerra sottomarina. Le due Coree ogni tanto “provano”
le difese della controparte, con azioni intese ad andare al di là dello
spionaggio e avrebbero un senso apparente solo precedessero di pochissimi
giorni o di ore un’invasione che finora, a differenza di ciò che accade in quel
di Gaza, non è mai venuta.
Questa sorta di
“battaglia navale” l’hanno inventata quelli del Nord, con rimarchevole fantasia,
ma quelli del Sud hanno imparato in fretta. “Sabotatori” più o meno ipotetici dovrebbero
comportarsi come i “colleghi” che vengono a terra da un sommergibile in
missione suicida; ma la tecnica è diversa. Entrano dai cunicoli, aprono
gallerie nel granito a Nord di una frontiera che ufficialmente si chiama ancora
linea di demarcazione, le fanno sempre più in profondo e si preparano – o si
preparavano – a farle uscire ben addentro in territorio del Sud. Non sempre si
tratta di cunicoli per spie o sabotatori: uno dei tunnel scoperti dai militari
di Seul anni fa aveva quaranta metri di diametro e ci sarebbe potuta transitare
un’intera divisione in meno di mezz’ora. Lo ricordo perché ho avuto occasione
di visitarlo, naturalmente soltanto il suo segmento meridionale, saldamente
presidiato da soldati sudcoreani, anch’essi trasformati in talpe. Hanno
adottato nelle viscere delle montagne gli strumenti e i metodi che le navi
specializzate in superficie adottano per sminare sommergibili acquattati sul
fondo del mare. Strumenti sensibilissimi danno l’allarme e indicano che in una
certa direzione “qualcuno” sta scavando una galleria. Le “forze speciali” di
Seul cominciano a perforarne uno che lo intercetti. Una volta che le due
gallerie si sono congiunte, gli infiltrati si ritirano verso il Nord, facendosi
crollare dietro la roccia con carichi di dinamite. Le gallerie sono a questo
punto sbarrate da barricate naturali. Davanti a ogni parete di roccia i soldati
di Seul montano la guardia. Si può arrivare a salutarle scendendo per cunicoli
ripidi, scivolosi e scomodi, reggendosi a ringhiere tipo quinto grado
dolomitico. Sono Uomini sul Fondo, una compagnia o un battaglione trincerati
nelle viscere della terra in piena formazione di battaglia, davanti a tutti
coppie di mitraglieri con l’elmo d’acciaio e il dito sul grilletto, davanti a
un muro di roccia da cui non sbucheranno più né uomini né panzer. L’atmosfera è
surreale, con questi occhi e queste armi puntati verso il nulla, versione reale
dei guerrieri anacoreti del Deserto dei Tartari: con la differenza, fra
l’altro, che gli eroi di Buzzati divorati dalla malinconia si consumano almeno alla
luce del sole e non nel ventre di un oceano di granito. Sopra, qualche volta,
passano missili. Ma questa è l’altra metà della storia.