Alberto
Pasolini Zanelli
Un paio di
giorni fa Barack Obama è andato a fare una visitina a una delle “fabbriche del
futuro”. Vi si lavora a uno dei progetti di cui si parla di più in questi
tempi: l’auto senza conducente, caro a un presidente tecnologico e “futurista”
come Obama. Con un ampio sorriso egli si è seduto al posto di guida e ha teso
le braccia verso il volante, fino a quando qualcuno gli ha spiegato che quello
su cui stava mettendo le mani non è un volante ma un simulacro: quella macchina
si guida da sola, il “pilota” è in realtà un passeggero.
A Obama deve
essere venuta in mente la
Casa Bianca, quel Palazzo del Potere in cui l’“uomo più
potente del mondo” sente sempre di più la mancanza di un volante. Di qualcosa
da guidare veramente, invece di essere ogni giorno di più condizionato,
frenato, impedito, stornato dalle complessità del mondo e dagli aspetti
surreali del sistema politico americano, soprattutto in questo momento. La
popolarità di Barack non è mai stata così bassa, anche se le sue idee e molti
suoi progetti godono di una certa approvazione. Quello che lui dice, piace;
quello che fa meno, le poche volte che ci riesce. Questo anche perché fin dalla
sua prima elezione l’opposizione repubblicana in Congresso ha adottato una
strategia che sconfina nel boicottaggio: non fa concorrenza a Obama, gli
impedisce di governare.
Nelle grandi
cose e nelle piccole. L’ultimo microesempio è quello di un decreto di attuazione
della sua riforma sanitaria, per accelerarla agevolando le imprese in certi
passaggi burocratici. Una scorciatoia, insomma, che diversi repubblicani
trasformano in scontro istituzionale. Alcuni, come Sarah Palin, invocano
addirittura l’impeachment, cioè la
destituzione del presidente, una iniziativa presa finora tre volte nella
storia, prima delle quali contro il successore di Lincoln nel drammatico caos
che succedette alla fine della Guerra Civile.
Ma la mancanza
di un volante tormenta Obama soprattutto nella politica estera. Il mondo è
sconvolto da un numero record di conflitti coevi e intrecciati l’un l’altro; che
spetterebbe alla Superpotenza risolvere o almeno affrontare. L’attuale
presidente finora non ci è riuscito. Perché non si può o perché non osa?
Soprattutto di questo lo si sospetta. La sua impostazione è definita “inerzia
politica” e ad essa viene attribuito l’“allarmante declino” del potere
americano nel mondo. Gli esempi tirati in ballo si moltiplicano, le reazioni
Usa paiono sempre più deboli e contraddittorie. Se Obama reagisce, sbaglia. Se
si astiene, ha torto. Lo accusano, a giorni alternati, di iperattivismo oppure,
più spesso, di “timidezza”. I “falchi” non gli hanno mai perdonato la scelta
annunciata fin dal giorno dell’insediamento: il “superamento” della fase
militare che, secondo Obama, è obbligato “perché il mondo è cambiato”. Ma per i
suoi critici proprio la situazione mondiale richiederebbe invece un ritorno
alla tradizione interventista.
In più di un
secolo gli Stati Uniti hanno partecipato ad almeno ventisei guerre, molte di
più se si includono gli interventi rapidi, principalmente aeronavali. Paesi
come la Libia o
l’Irak sono stati attaccati da presidenti repubblicani e democratici,
“internazionalisti liberali” come Clinton, “realisti” come Bush senior “neoconservatori” quali Bush junior. Dettaglio
statistico inatteso dai più: dopo la fine della Guerra Fredda, la frequenza
degli interventi militari Usa non è diminuita bensì aumentata. C’è chi sostiene
che ce ne sarebbe più bisogno che mai. Per Obama sono troppi. Egli preferirebbe
prevenire anziché reprimere, ammonire anziché bombardare. Qualche volta gli
riesce, ma di rado. Proprio in questi giorni l’angoscia e il “prurito” sono al
loro massimo in conseguenza dell’acuirsi delle tensioni del Medio Oriente e in
particolare l’apparente “rinascita” dello spirito di Bin Laden nella forma
ancora più allarmante dell’emergere di un Califfato islamico. Prima o poi, si
ripete sempre più spesso, Obama dovrà decidersi a fare qualcosa. Ma cosa, se
non è lui a poter girare il volante?