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La tragedia del secondo aereo della Malaysia Airlines abbattuto sui cieli ucraini



Alberto Pasolini Zanelli
L’unica identità certa è quella delle vittime, quelle umane di diverse nazionalità e quella meccanica delle linee aeree malesi da qualche tempo perseguitate dalla sorte, portate nelle prime pagine a segnalare lutti e a proporre misteri. Ricercatori ancora frugano nelle viscere dell’Oceano Indiano per scoprire qualche pezzo di macchinetta che racconti cosa e come si sia perso quel carico di passeggeri in un angolo Sud del mondo. Sarà ancora più difficile, con ogni probabilità, il compito di chi è chiamato a scoprire come e che cosa è successo in un angolo del Sud dell’Europa. Stavolta se ne sa di più e si rischia di sapere, alla fine, anche meno. Il Boeing 777 della Malaysia Airlines stavolta non è scomparso in qualche nuova edizione del Triangolo delle Bermude: la sua carcassa è in terra, scoperchiata la tomba delle quasi trecento vittime, visibili i corpicini dei bambini. Che cosa sia successo lo sappiamo.
Conosciamo anche, probabilmente, la marca del missile che ha centrato in volo l’aereo passeggeri che transitava lontano dal mondo come lo conosciamo in questi giorni, sorvolando uno spazio aereo che ai neutrali dovrebbe essere interdetto perché zona di guerra se non fosse che nessuno è in grado di affermare con autorevolezza che una guerra c’è e che guerra e quali belligeranti. Un “archeologo” che partisse dalla raccolta dei pezzi avrebbe una certezza non comune neppure nei conflitti dichiarati: il missile non poteva essere che russo, per il semplice motivo che tutte le armi in funzione in Ucraina sono “russe”, vengono dagli arsenali di quella che eravamo abituati a chiamare Unione Sovietica. Quella in corso attorno e sopra città come Donetsk o Lugansk è una guerra di secessione, anzi di secessioni contrapposte: degli ucraini che vogliono recidere gli ultimi legami fra la loro terra e la Russia e dei russi che si trovano ad essere ucraini e dall’Ucraina vogliono andarsene per ricongiungersi con i russi rimasti russi in Russia, al di là di un’altra di quelle frontiere folli che le guerre e le rivoluzioni tanto spesso fabbricano.
Conosciamo, con ogni probabilità, la marca dei missili installati in quella parte del mondo, su quel fronte attivo del conflitto, ma non ci serve perché gli uni e gli altri attingono allo stesso arsenale. Il missile che ha distrutto l’aereo malese potrebbe essere stato sparato dagli indipendentisti russofoni e russofili che hanno proclamato l’indipendenza delle varie Lugansk e Donetsk (imitando in questo la Crimea), dall’esercito regolare ucraino intento a schiacciare tali secessioni o dalle forze russe che da dietro la vicina frontiera in diversi modi “proteggono” i secessionisti.
Ciascuno dei sospettati si è affrettato a smentire, nessuno è obbligato a credergli almeno nell’immediato. Più che dai cacciatori di “scatolette nere” le responsabilità verranno, più che scoperte, “attribuite”, forse secondo gli interessi globali in base alla ricerca delle verità. La posta in gioco potrebbe anche essere – fa male dirlo e soprattutto pensarlo – ancora più importante della ricerca di una verità su chi ha ucciso quei bambini. Non a caso colloqui telefonici al vertice sono cominciati subito, anche a livello delle Grandi Potenze. Una guerriglia partigiana nell’Ucraina orientale disturba e può scalfire gli equilibri mondiali ma non sconvolgerli; una prova di forza ai vertici avrebbe conseguenze incalcolabili. Anche perché ci sono altre troppe guerre in giro per il mondo, altre crisi che possono avere bisogno, per essere in qualche modo ricomposte, di qualche scambio di omissioni, di verità “aggiustate” e magari anche, in qualche modo, di territori.