Alberto Pasolini Zanelli
Uno sguardo a una
mappa del Medio Oriente ci rivela un non piccolo segreto “statistico” di questi
nostri giorni: non ci sono mai state tante guerre. Di varia denominazione,
spesso – e almeno formalmente – indipendenti l’una dall’altra. Perfetto è il
contrasto con il conflitto di cui andiamo “celebrando” il centenario: la Prima Guerra Mondiale, che
nacque da un episodio singolo, in un angolo dimenticato di un vecchio impero e
dilagò in Europa e fuori. Questa volta i focolai sono multipli, praticamente
contemporanei, ma si affollano in una parte del mondo, scavalcandosi a vicenda,
frenati talvolta l’uno dall’altro e altre volte invece sospinti.
Proviamo a rifare
il conto, senza curarci dell’ordine cronologico. La Libia è disintegrata in
conseguenza di una iniziativa “umanitaria” per liquidare il dittatore Gheddafi.
L’Egitto ha vissuto due o tre colpi di Stato, che l’hanno riportato a un regime
molto simile a quello originario. La
Siria è devastata da una guerra che è già durata più di tre
anni e che doveva anch’essa essere un punto di transito verso la democrazia. L’Irak
è stato occupato dagli americani undici anni fa (anche lì c’era un dittatore da
abbattere, Saddam Hussein) e ora che gli americani se ne sono andati è teatro
di un’altra invasione, questa volta in nome di Allah che sconvolge quel poco di
ordine che era rimasto o che si era instaurato. La Palestina vive giorni di
tensione non più toccati da quando si riuscì ad imbastire un pur fragile
armistizio fra arabi ed ebrei. L’Afghanistan ha sulle spalle più di vent’anni
di guerre, che hanno visto in campo ogni sorta di sette e di etnie, con la
partecipazione straordinaria dell’Unione Sovietica e poi degli Stati Uniti.
L’Arabia Saudita e il Qatar armano gli integralisti, poi si trovano su fronti contrapposti.
Lo Yemen non è
certo in pace, la Giordania
è minacciata da più di un lato, il Pakistan ha i suoi talebani attivissimi, la Turchia è stata una attiva
parte in causa almeno nei primi tempi della guerra civile siriana e ora si
trova addosso le conseguenze ad altre sue frontiere meridionali, dalla sfida integralista
di un autonominato Califfo al risveglio delle rivendicazioni dei curdi. Senza
contare, ma dovremmo farlo, le operazioni belliche in corso da mesi alle
frontiere dell’Ucraina che vedono impegnati sul terreno diplomatico i due
vecchi rivali di Washington e di Mosca, dopo una ventina d’anni di “quiete”.
Tante guerre per
procura e dunque tante mediazioni di pace, sempre per procura. Ma dal momento
che l’area delle tensioni è quella e quindi dei veri neutrali non se ne
trovano, si avvia il paradosso di partecipanti a una guerra che diventano
mediatori di pace in un’altra. L’ultimo esempio è l’Egitto, sconvolto dalle
conseguenze di quella sua lontana “Primavera”, ora mediatore della guerra che
sta ristoppiando alla sua frontiera orientale fra Israele e i palestinesi, con
epicentro, per ora, nella Striscia di Gaza, un tempo amministrata dal Cairo. Si
attivano le “mediazioni” in Irak, “fronte” centrale in questo momento di tutte
le ostilità regionali dopo essere stato invaso da una fazione integralista
impegnata fino a poco fa nella guerra civile in Siria. Quest’ultima, va
ricordato, era stata nutrita fino all’altro giorno da molti Paesi e “partiti”
uniti dalla determinazione di abbattere la dittatura “laica” dello sciita
Assad. Obama emanò mesi fa quello che a tutti parve un ultimatum prodromo a un
intervento militare diretto, poi svanito per l’avvio di una trattativa proposta
e condotta dalla Russia. La stessa che quasi contemporaneamente ma su altri
tavoli si scambia minacce e dispetti con l’America e i suoi alleati europei ma
che a sua volta continua ad essere mediatrice fra l’Occidente e l’Iran; lo
stesso sceso in campo in difesa del regime siriano.
Non solo, dunque,
ogni conflitto ha le sue alleanze e le sue mediazioni, ma anche le
contraddizioni all’interno di ogni schieramento. Lo sa meglio di ogni altro il
Segretario di Stato americano John Kerry, l’uomo che con il suo attivismo e la
sua ubiquità ha fatto sbiadire i leggendari record stabiliti negli anni
Settanta da Henry Kissinger, fotografato almeno due volte al giorno in capitali
diverse con interlocutori che sono “amici” oppure controparti a seconda della
locazione di quei tavoli. Non c’è da meravigliarsi se il cammino delle mediazioni
è lento e i suoi bilanci contraddittori a distanza anche di ore. È conseguenza
della geografia e della storia, di frontiere sbagliate tracciate un secolo fa a
conclusione imprevedibile della “guerra di Sarajevo”. E della strategia,
illuminata ma a tratti vacillante, di Barack Obama, riassunta nella formula – o
nell’auspicio – che l’America abbia cessato con la partenza di George W. Bush
all’abitudine di intervenire in armi un po’ dappertutto e possa ora “guidare stando
indietro”.