Alberto
Pasolini Zanelli
Certi “episodi minori” sono in realtà
tutt’altro che piccoli. Indicano una strada, segnalano la temperatura di una
crisi, suggeriscono misure per affrontarla. È il caso della raffica di arresti
in Italia su una delle branche “minime” dell’articolazione del terrorismo
islamico. Contiene una “pagina” pressoché nuova per l’Italia ma che è già stata
scritta a caratteri di sangue in altri Paesi europei: la “migrazione” di
cittadini dei Paesi occidentali verso il teatro delle principali battaglie nel
Medio Oriente. È successo in Inghilterra, in Francia, succede in Germania, non
ci sono più eccezioni. Riguarda, in questo è di bruciante attualità, gli
immigrati da quelle terre cui dovrebbero in teoria essere fuggiti e rifuggirne
gli usi. Ma che in realtà qui “da noi” si approfondiscono nelle loro passioni e
nei loro odii e li scaricano o in terra di “esilio” (la strage di Charlie Hébdo a Parigi è l’esempio più
famoso ma a Londra era già accaduto di peggio) oppure, in modo forse più
sistematico, rientrando nel campo di battaglia, magari arricchiti da tecniche o
tattiche apprese in Occidente e comunque spesso agevolati dal possesso di un
passaporto “pulito”. È una delle strategie collaterali dell’Isis o anche dei
suoi concorrenti, spesso gruppuscoli a base locale ma non tutti: gli ultimi
mesi e settimane hanno visto infatti un “ritorno” con forze crescenti e tattiche
più audaci di Al Qaida, che dell’intero movimento è madre a suo modo illustre
nella memoria di Osama Bin Laden. Sia pure correggendone una impostazione che
era un dogma ai tempi della strage di New York, cioè che bisognava dare la
precedenza a colpire gli “obiettivi lontani” rispetto a quelli locali che
richiedevano meno preparazione e mezzi più artigiani. Tale assioma fu
rispettato, dopo Manhattan, a cominciare dagli eccidi di Madrid e di Londra.
Adesso si assiste a una modifica di questo piano, forse consentita soprattutto
dall’incremento del “materiale umano” a disposizione delle centrali del
terrore. Una strategia che richiede maggiori finanziamenti, che vengono in
abbondanza sia attraverso le rapine alle comunità delle vittime (a cominciare
naturalmente dagli sciiti), sia dalle casse degli Stati come l’Arabia Saudita,
che formalmente finanzia iniziative religiose ma i cui dollari arrivano invece
anche dalle “squadre d’azione”.
Il “fronte”, insomma, si allarga e si
allungano le “retrovie”. Il che significa, per noi, che dobbiamo fare di più,
più in fretta e con più coerenza. Il primo “comandamento” pare il più ovvio ma
non lo è perché il fronte di resistenza al terrorismo è, se possibile, ancora
più variegato e diviso di quello nemico, colmo di contraddizioni e di tattiche
o scelte che finiscono con l’eludersi a vicenda. Non tanto nelle aree più
direttamente “difensive” come appunto è l’Italia. Vi si moltiplicano le
iniziative nemiche, che ci colgono spesso impreparati. E comprensibilmente
perché siamo in una fase di transizione dal momento in cui il problema
principale e quasi unico era quello, gravissimo, dell’immigrazione clandestina
di massa. La resistenza a quest’ultima continua ad essere fondamentale, ma ora
c’è altro, soprattutto da quando l’Italia, oltre ad importare scontenti, si è
messa anche ad esportare terroristi. Far presto non è facile, passare alla
controffensiva è per il momento utopistico, accelerare le contromisure è
egualmente arduo, per l’Italia forse ancora più che con i principali nostri
alleati. Ma non bisogna mai dimenticare il terzo imperativo: essere coerenti. Molti
sono gli ostacoli. Risalgono dalla geografia, dalla stratificazione religiosa,
da quella politica, da alcuni residui anacronistici della Guerra Fredda, dal
permanere di importanti focolai di tensione “locali” (in primis naturalmente la
Palestina). Complica le cose, ad esempio, la presenza degli Hezbollah in Libano
con i loro agganci in Iran, che lo Stato ebraico considera da tempo il maggior
pericolo, ciò che aggrava le tensioni di Teheran con l’America e ostacola da
anni e anche in questi giorni le trattative per un accordo nucleare.
Ma l’Iran è anche in Siria e il regime di
Damasco, sotto attacco da quattro anni in una guerra civile che ha desolato il
Paese, è considerato da varie parti un nemico ideologico, sia perché è di
emanazione sciita, sia per la sua struttura fortemente autoritaria, sia perché
è una roccaforte di, sia pur perversa, “laicità” nel mondo arabo. Tutti motivi
per cui l’Occidente esita a compiere più apertamente il passo che in occasioni
locali si è già visto: una collaborazione con il governo siriano contro Isis e
Al Qaida, in nome del vecchio principio secondo cui “il nemico del mio nemico è
mio amico”. L’acutizzarsi dell’offensiva terroristica spinge sempre più vicini
a questo passaggio indigesto.