Alberto Pasolini Zanelli
È tempo di vacanze,
forse, per i maratoneti della diplomazia. Si sono conclusi, almeno per ora, i
due perni più lunghi, più seguiti, più angosciosi: quello fra europei sulle
sorti della Grecia e quello su scala mondiale centrato sull’Iran. Con “armi
assolute” differenti: il bombardamento cartaceo dei creditori dalle “basi” di
Bruxelles e di Berlino e lo spettro nucleare che da anni e anni turbava le
notti a Washington, a Teheran e nelle capitali degli altri Paesi coinvolti.
Poche ore dopo il segnale di “riposo” per i maratoneti si comincia a chiarire
che cosa è stato ottenuto e che cosa no, se ci sia da fidarsi e se si siano
creati dei solidi precedenti. Allo stato attuale si può concludere che la
partita europea si è chiusa con uno sconfitto (il popolo greco) e nessun vero
vincitore. Se si vogliono suonare degli inni celebrativi, la scelta più pratica
e credibile assomiglia piuttosto a una marcia funebre.
Sull’altro accordo,
che è senz’altro di dimensioni maggiori, non regionali ma planetarie, non solo
economiche ma anche politiche e militari, il discorso più aperto, la fiducia è
lecita. Non certa, perché stiamo entrando, anche per questo match nucleare,
nell’epoca delle ratifiche. In particolare quella dell’Iran e quella di parte
americana. A Teheran come a Washington si manifesta, più o meno coperta, la
resistenza e l’ostilità dei “falchi”, raccolti i primi attorno a un’autorità,
quella del “leader supremo” non comparabile con le strutture di Paesi
democratici o anche di dittature “normali”. Sul versante americano tutto è più
chiaro, se non totalmente più limpido e le “riserve”, quelle dell’opposizione,
vengono dalla periferia opposta, cioè dal Congresso. La battaglia è già
serrata, anche perché non c’è molto tempo. Le trattative sono durate anni,
nutrendosi anche e forse soprattutto di pazienza. Ma per il sigillo finale il
tempo a disposizione si conta addirittura a giorni: non più di sessanta, che
hanno già cominciato a scorrere. Una maggioranza è difficile da trovare ma il
conteggio è semplice da raccontare. A Washington un governo, guidato da un
presidente democratico e “colomba” e ci sono i due rami del Parlamento dominati
dai repubblicani e dai “falchi”. Le sorti del trattato parrebbero dunque
segnate e invece le sorti sono incerte, perché i “no”, molto probabilmente in
maggioranza, potrebbero però mancare la cifra richiesta se la
Casa Bianca userà l’arma del “veto” a certa
forma di risposta negativa.
I numeri sono
dunque in apparenza da una parte per quanto riguarda il “no” pregiudiziale che
è atteso. La Casa Bianca
ha però dalla sua l’arma delle idee della concretezza di una proposta e
soprattutto del confronto con le alternative. L’arma finora impiegata da Obama
(e forse ancora di più dal suo Segretario di Stato John Kerry, il vero stratega
di questo negoziato, l’autore del “gol dello zoppo”) consiste nell’enunciazione
di un principio e di uno Stato di fatto. Il presidente lo ha detto e ripetuto
chiaramente in un discorso e in una conferenza stampa: l’unica alternativa al
compromesso diplomatico sarebbe stata una azione militare e i colloqui che contano
e che risolvono non sono quelli facili “fra amici” ma quelli ardui fra i
portatori di interessi contrapposti. Non è un’idea nuova, è l’assioma centrale
dell’approccio di Obama alla politica estera, enunciato fin dal primo giorno
della sua presidenza e “premiato” (magari con fretta eccessiva) con un Nobel
per la pace. Una convinzione che è valsa a Obama critiche molto severe non
scevre di pregiudizio, riassunte nello spettro dell’“indebolimento senza
precedenti dell’America”. Un’accusa cui Obama ha risposto soltanto adesso,
rifacendosi a un precedente illustre che egli cita come sua ispirazione. Una
persona e un accordo. Ronald Reagan e le sue trattative con Mikhail Gorbaciov
che, condotte con passione e pazienza, portarono non alla soluzione di una
crisi regionale ma alla fine della Guerra Fredda, evento epocale che concluse
un secolo.