Alberto Pasolini Zanelli
È uno dei segnali di
una tensione mondiale con pochi precedenti la “gara” in corso tra la Grecia e l’Iran. O meglio
tra le grandi potenze della Terra per cercare di risolvere due crisi che ben poco
hanno a che fare l’una con l’altra, tranne i protagonisti e la ristrettezza del
calendario. Da mesi non passa settimana, giorno, ora senza che venga annunciato
un rinvio da una delle molte ormai città europee che sono scese nelle
discussioni. I protagonisti sembrano per la verità gareggiare a chi riesce a
strappare un nuovo rinvio ma i problemi, invece, corrono verso accordi tanto
più difficili quanto più necessari. Nelle ultime ore i segnali sono misti:
della Grecia si ricomincia a parlare al tempo presente o passato prossimo, l’Iran
è ancora attaccata al futuro, ma potrebbe ancora arrivare in testa. Ammesso che
ciò abbia un senso dato che in realtà la firma degli accordi minaccia di essere
contemporaneamente il “via” a una nuova fase di rinvii. In ambedue i casi il numero
di coloro che credono nel proprio interesse evitare veri accordi è ridotto ma
potente. Ecco perché viene in vari modi “diluita” l’urgenza, soprattutto in un
accordo, quello sull’Iran, che coinvolge un po’ tutto il mondo relegando la
tragedia greca in corso a un problema europeo e dunque regionale.
I segnali più
significativi sembrano in realtà venire, dalle ultime ore, da quell’antico palazzo
di Vienna in cui si “commemorano” ricordi e forse auspici di un Congresso che
parve “sistemare” l’Europa e il mondo esattamente due secoli fa. C’è, fra i
protagonisti, chi definisce “al 99 per cento” la probabilità di un accordo. E
c’è chi ammonisce che fino all’ultimo secondo tutto si potrebbe ancora
bloccare. Chi tace è colui che potrebbe essere definito il Metternich di
duecento anni dopo, il Segretario di Stato americano John Kerry, quello che
nelle ultime ore alle domande non risponde nemmeno più “staremo a vedere” ma soltanto
con il silenzio, in contrasto, forse più di tattica che di sostanza, con la sua
controparte iraniana. Gli argomenti non sono cambiati, le difficoltà sono
localizzate, i toni più prudenti ma probabilmente meno accesi.
Con una eccezione:
Benjamin Netanyahu che, oltre che vigorosa parte in causa, funge anche da
“cronista” di questo difficilissimo green diplomatico. Che non parla nella sede
dei negoziati ma si spiega benissimo da lontano, a servizio della sua strategia
che mira in sostanza a farli fallire. Il suo tono è sempre stato molto fermo,
in armonia con la sua profonda convinzione che da qualunque compromesso tra
l’Iran e l’Occidente possano venire solo cattive notizie e sirene d’allarme per
Israele. Gli ultimi giorni ed ore lo hanno confermato in questa sua convinzione
intransigente, che si esprime spesso in termini che si potrebbero definire
apocalittici. Con accresciuta urgenza egli accusa le grandi potenze di
“spianare il cammino dell’Iran per poter contare non con una ma con molte bombe
atomiche e con centinaia di migliaia di milioni di dollari per la sua macchina
terroristica”. E in effetti lo Stato ebraico, da quando egli è alla guida, non
ha mai considerato le trattative in corso, formalmente nucleari, come la vera
posta in gioco. Anche se Teheran non avesse la Bomba o l’avesse tra parecchi anni, essa
continuerebbe ad essere un nemico e una minaccia. Le sanzioni economiche in
vigore da molti anni su iniziativa americana servono soprattutto ad indebolire
globalmente l’Iran e la sua strategia di “espansione politico-militare nel
Medio Oriente, anche con armi convenzionali, prima tra le quali le “milizie” sciite”
armate e foraggiate in Paesi stranieri, dal Libano, all’Irak, all’Irak, alla
Siria, anche se costituiscono la più efficace arma contro i terroristi sunniti che
imperversano, dall’Isis del Califfato agli eredi di Al Qaida. In questo Netanyahu
vede il pericolo ad un tempo più immediato e più permanente contro il quale
egli si è mobilitato da anni con un impegno anche personale che va ben oltre
l’uso dei canali e del linguaggio diplomatici. Lo si è visto con la sua visita
blitz a Washington, dove egli si è servito del Congresso per attaccare
“dall’interno” la politica estera di Obama con l’appoggio massiccio
dell’opposizione repubblicana. Su questa egli continua a contare anche se e
quando quel controverso trattato sarà stato firmato, da giorni, settimane o
ore. È convinto di poterlo bloccare in fase di ratifica. L’unico dato che
potrebbe preoccuparlo e intralciare la sua strategia è il mutamento che
qualcuno coglie nell’opinione pubblica Usa e soprattutto nel suo settore così
delicato ed importante che è quello degli ebrei americani. I due sondaggi più
recenti, uno dei quali condotto dalla Cnn, mostra che questi ultimi sono
favorevoli al “patto nucleare” con l’Iran che Obama e soprattutto Kerry
perseguono.