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Cinque paci difficili


Alberto Pasolini Zanelli
Cinque paci difficili, non solo perché sono molte e hanno poco tempo per fiorire, ma soprattutto perché le speranze di un qualche successo su un fronte sono legate al costo degli altri fronti, che si prevede alto come al solito data l’identità dei problemi e reso ancora più arduo dalla composizione della “conferenza di Parigi”. Che non si chiama così perché un annuncio ufficiale complicherebbe ulteriormente le trattative, ma è stato messo in piedi all’ultimo momento o quasi da due capi di Stato, quello americano e quello francese, anche se sono arrivati o stanno arrivando anche altri statisti, compresa la signora Merkel e una doppia composizione di patti: quello presentato ufficialmente, che riguarda le due Coree e gli Stati Uniti e che contiene protagonisti meno importanti o almeno meno tesi. Il secondo riguarda l’Iran ed appare oggi ancora più difficile di quello nominato sopra: riguarda l’America e ovviamente l’Iran più gli altri Paesi firmatari di un patto abbastanza giovane ma molto arduo anche perché non per tutti i protagonisti una pace di compromesso, la sola oggi come oggi possibile, non è da tutti egualmente considerata il traguardo più importante e immediato ma è invece intriso di ultimatum. Poi la riunione di tre giorni a Parigi è stata allargata ad altri interessi e dialoghi più o meno secondari ma non meno importanti: una “distensione” dei rapporti fra Stati Uniti ed alcuni Paesi europei, fra le due Coree tenendo conto, oltre che dell’America, anche della Cina e del Giappone, la restaurazione del trattato commerciale fra Washington e le capitali sull’altra sponda dell’Atlantico e fra i Paesi del Medio Oriente.
Tutte situazioni e ambizioni difficili. Gli ha dato più urgenza la presenza alla Casa Bianca di Donald Trump, eletto con lo slogan “America First” e con un programma un po’ confuso ma sonoro. L’inquilino della Casa Bianca, non dimentichiamo, è stato eletto a sorpresa e con un progetto ma soprattutto un tono che potrebbe essere definito “rivoluzionario” e ambizioso non solo per gli Stati Uniti ma un po’ per tutti, coinvolti in un modo e in un altro in un progetto restaurativo espresso in termini espliciti e spesso ultimativi. La crisi come la conosciamo risulta nata improvvisamente dalla proclamazione del dittatore nordcoreano Kim Jong-un che il suo Paese sarebbe diventato una potenza nucleare. Lo ha detto e ripetuto e non solo a parole, ma con gesti dimostrativi concretamente allarmanti come gli esperimenti, soprattutto dei missili a lancio nucleare che si sono allungati in poche settimane, guadagnando ogni volta centinaia o migliaia di chilometri e oggi ufficialmente in grado di raggiungere la terraferma in America. Trump ha reagito com’era da aspettarsi da lui rilanciando ed estendendo la minaccia e lo scambio di ultimatum fra lui e Kim sembrava costruito apposta per accorciare i tempi e aggravare i rischi, conditi da scambio di insulti personali. Finché i due nemici paiono essersi convertiti: Trump azzarda ora che Kim sia competente e “moderato”, un “uomo d’onore”, Kim assume a sua volta un linguaggio di pace.
Adesso sembrano entrambi convinti che un accordo sia possibile. La Corea del Nord annuncia di avere sospeso gli esperimenti, l’America cerca alleati, anche diplomatici. Sembra avere trovato soprattutto la Corea del Sud, memore di una guerra durata tre anni e un armistizio proclamato ma non concretizzato che risale al 1953. Washington aveva reagito adesso con un ultimatum, poi improvvisamente ha definito possibile e anzi augurabile una sorta di armistizio. Che cosa è cambiato? Una nuova urgenza, per cui Trump è disposto a fare concessioni in Corea: a patto che un altro trattato antinucleare, quello con l’Iran, trovi modifiche importanti. Sarebbe dunque uno scambio, se non fosse che altri Paesi hanno sottoscritto quel trattato, fortemente voluto da Obama e attuato dal suo segretario di Stato John Kerry ma controfirmato da altri Paesi come la Cina, la Russia, la Corea del Sud ma soprattutto la Gran Bretagna, la Francia e la Germania (l’Italia non ha partecipato alle trattative anche se le ha formalmente presiedute Federica Mogherini, ministro degli Esteri europeo). Questi ultimi Paesi si sono divisi: Londra e Parigi completamente d’accordo con l’America e contro l’Iran, Mosca e Pechino dalla parte opposta, gli altri sostanzialmente indifferenti perché per loro la cosa più importante è la Corea.
Per l’America, invece, non da oggi, il nemico numero uno è probabilmente l’Iran e non solo per un risentimento antico, della rivoluzione khomeinista e il sequestro per oltre un anno dei diplomatici americani a Teheran, ma anche perché due importanti alleati dell’America hanno motivi loro per temere l’Iran, soprattutto Israele per motivi di sicurezza e l’Arabia Saudita per un giro d’affari imperniato sul petrolio. Un campo di battaglia e una vittima di questo scontro è la Siria, all’inizio uno dei tanti obiettivi di una Primavera araba, con un governo sostenuto dall’Iran e dalla Russia, mentre l’Europa (ma anche il Giappone) si ritiene danneggiata da un’altra iniziativa di Trump, cioè l’imposizione di tariffe commerciali ai prodotti di importazione.
Al momento degli incontri di Parigi le offerte sembrano dunque queste: gli europei d’accordo sulla Corea, negativi su un aggravamento delle sanzioni all’Iran, soprattutto interessati a una esenzione dalle misure protezionistiche di Washington. Non tutti: la Germania e la Francia sono più favorevoli alla linea americana, soprattutto il neopresidente di Parigi Macron, orgoglioso di essere stato il primo statista straniero invitato ad una visita di Stato a Washington. Poi è in arrivo la Merkel, ma una volta tanto la Germania non è considerata a Washington come la prima della classe. Quattro progetti, a tre dei quali però la Casa Bianca sembra ostile, in omaggio a una nuova “religione”: un’America più forte.