Alberto Pasolini Zanelli
Le consultazioni elettorali importanti
si dividono di solito in tre categorie: i trionfi, i pareggi, i recuperi. Il voto
di medio termine negli Stati Uniti ha prodotto, in misure diverse, tutti e tre
questi esiti. In primo luogo ha premiato Trump, che una volta di più ha vinto
al tavolo di un gioco d’azzardo (dopotutto era il suo mestiere prima di
buttarsi in politica) dei programmi estremisti proclamati con voce roboante e
accento da sfida e indirizzati acutamente a quella parte del pubblico americano
che gradisce l’intransigenza e le sfide, soprattutto se accompagnate da buone
notizie economiche.
Si diceva una volta che gli
americani “votano con il portafoglio” e danno così un esempio di democrazia
matura. Con il tempo sono cambiati. Forse gradualmente, ma il risultato si vede
adesso sotto la direzione rombante e avventurosa di Trump. L’economia americana
è infine guarita dalla malattia gravissima di una recessione economica “scoppiata”
esattamente dieci anni fa, nelle ultime settimane di un presidente repubblicano
di nome George Bush. Barack Obama, pur democratico, ne ha fruito per essere
eletto, ma sofferto per le dimensioni del carico. Lo ha affrontato con tanta
cautela e lo ha guarito a poco a poco. L’economia ha ritrovato il segno “più” nel
momento in cui lui, esauriti i suoi otto anni, doveva dimettersi. Trump ha affrontato
una situazione praticamente identica a quella precedente al crac di fine Bush, antecedente
cioè al crollo e pari a quella ricostruita da Obama. Un’opera sostanzialmente
di successo ma con poca gloria. Ma con una differenza psicologicamente
essenziale: quella macchina era di nuovo lanciata e i miglioramenti del nuovo
presidente avvenivano non su un recupero ma su uno slancio record. L’uomo della
Casa Bianca non doveva stavolta promettere per creare fiducia. Poteva presentare
come suo il progresso comune. Ci è riuscito al passaggio dei primi due anni in
termini “generosi” e su questa situazione ha impostato la campagna elettorale
di medio termine che riguardava il Congresso. Si è rivolto con un vigore che sconfina
nella violenza, almeno verbale. Mantenuta la promessa principale, si è occupato
di altro, cercando l’applauso dei compatrioti soprattutto attraverso le “rotture”
con gli altri, quasi belliche, la Corea del Nord, l’Iran, la partecipazione al
conflitto in Siria, ma soprattutto negli affari: debuttando con il ripudio dell’America
dal Trattato di Parigi, aumentando i dazi contro le importazioni dalla Cina,
affrontando, anche con durezza, gli alleati occidentali, dall’Europa al Canada.
E soprattutto costruendo ed esaltando un sistema di difesa in base allo slogan “Per
un’America ridiventata grande”, sintetizzato alla vigilia del voto con una “confessione”:
“Io sono un nazionalista”. Dimostrandolo per l’ultima volta con la decisione di
mandare soldati e carri armati Usa in Messico per bloccare le “carovane” di
immigranti dai Paesi più poveri dell’America Centrale. Trump probabilmente prevedeva
che una parte degli americani disapprovasse questa svolta che definiscono “reazionaria”.
Ma ha fatto bene i suoi conti perché gli avversari, cioè il Partito democratico,
avevano qualcosa da contestare, qualcosa da chiedere ma ben poco da offrire. E così
i due partiti si sono suddivisi, al momento di tornare alle urne due anni dopo,
gli umori e le strategie: si sono limitati a cercare di ristabilire l’equilibrio
con offerte interessanti ma troppo modeste oppure non abbastanza attuali. La Casa
Bianca ha aiutato i repubblicani a confermare la propria maggioranza in Senato (e
questo è un trionfo) mentre i democratici hanno riconquistato quella alla
Camera (e questo è un pareggio in meglio). Sommati, i due esiti producono la
terza soluzione: il recupero. Sarà molto più difficile per la Casa Bianca
ripetere un Blitz come quello del primo biennio. Ma soprattutto il mantenimento
del Senato dovrebbe garantire Trump contro un impeachment.