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Una volta tanto ....


Alberto Pasolini Zanelli

Una volta tanto il cittadino americano più incoraggiato da una festa nazionale è stato il presidente, organizzatore di una versione non ortodossa della celebrazione del 4 luglio, ma evidentemente efficace. Per la prima volta dalla sua ascesa alla Casa Bianca la grande stampa e la televisione non hanno preso a sassate una sua iniziativa e neppure, cosa ancora più singolare, il suo stile. Donald Trump ha fatto una scommessa e l’ha vinta: ha trasformato una occasione tradizionale e piena di canti e di passeggiate in una parata militare con più soldati che civili in prima linea, con carri armati disposti attorno al monumento tradizionale e con squadriglie di aerei a sorvolarlo nei momenti giusti. Molti avevano deplorato questa trasformazione di sostanza e di stile, ma la giornata ha dimostrato che una volta tanto l’uomo di lassù aveva indovinato. Anche il suo discorso è stato meno violento e meno stridulo del solito senza trasformarsi per questo in una predica unitaria e conciliatoria. Trump ha usato i termini più adatti per parlare a una grande nazione, a una Superpotenza nei confronti del resto del mondo che egli amerebbe però più docile nei confronti della sua presidenza imperiale. Non ha annunciato altre iniziative militari, ha “dimenticato” la sua ossessione dell’Iran, ha riportato in prima fila gli obiettivi e anche gli ostacoli di una sistemazione planetaria dei rapporti economici, senza esagerare nell’autocelebrazione ma senza lasciarsi trascinare dalle critiche di coloro che promuovono esagerazioni opposte. Ed è riuscito ad evitare o quasi il dato del deficit nazionale, che negli ultimi dodici anni, fra cui quella della sua presidenza, è “esploso” dal 35 al 78 per cento del reddito nazionale lordo. In sostanza, ha ignorato le zone difficili del paesaggio della “sua” America e non ha risposto alle critiche martellanti dei democratici, vincendo contro di loro la prima, provvisoria battaglia della campagna elettorale che comincia.

Evidentemente, dunque, è il bilancio dell’opposizione che non ha indotto le voci né all’entusiasmo e nemmeno all’usuale critica acerba che Donald Trump si era in gran parte meritata. Ma ora il discorso politico inevitabilmente ha cominciato a spostarsi dal passato al futuro, dal giudizio su come Trump ha governato alle ipotesi su come governerebbero i democratici se riusciranno a espellerlo l’anno prossimo dal potere. E si è visto che non sono poi tanto agguerriti e hanno saputo solo in parte approfittare dei, non pochi, momenti di debolezze, contraddizioni ed esagerazioni polemiche del reggente. Forse il loro primo errore è stato organizzativo: sull’onda del risentimento si sono trovati più di venti aspiranti a battere Trump, incoraggiati dai pre-sondaggi che lo danno al di sotto del 50 per cento. L’opposizione è dunque al di sopra, ma così estremamente divisa. Non nelle idee generali, ma nei dettagli programmatici che vedono in robusta concorrenza quasi tutti i debuttanti, soprattutto le donne trascinate dalla voga del femminismo, che hanno in programma drastiche modifiche a vantaggio del loro sesso. Ma non solo questo esse chiedono: miglioramento del trattamento degli immigrati (sono indignate soprattutto dai “campi di concentramento” per bambini separati con la forza dalle mamme). Quando si passa poi ad altri temi, allora non sono soltanto le donne estremiste. Dei ventuno candidati che hanno detto la loro nei due dibattiti di partito, al massimo un paio si possono qualificare come “moderati”. Tutti gli altri fanno a gara nell’estremizzare la sostanza e ancor più lo stile delle loro polemiche e proposte. Il tono aspro delle critiche a Trump è stato finora quasi eguagliato dalla durezza dei rimproveri a Joe Biden, che dovrebbe fruire dei suoi otto anni come numero due del primo presidente di colore nella storia americana. Egli viene criticato invece di “razzismo” per qualche frase infelice pronunciata vent’anni fa. Ciò lo indebolisce e dà l’impressione che la contesa per la candidatura si svolgerà praticamente solo fra esponenti vecchi e nuovi della sinistra “liberale”, considerata dall’americano medio come estremista o addirittura “socialista”, parola tabù per gli usi e i costumi degli Stati Uniti. Uno solo fra i favoriti la evita ed è Elizabeth Warren, senatore anziano del Massachusetts, persona colta ed esperta che deve vedersela con altri due membri del Senato: il tenace e benevolo Bernie Sanders del Vermont e la “incendiaria” Kamala Harris della California. Fra moderati e “radicali” rischiano entrambi di non raggiungere una maggioranza viste le abitudini del popolo americano. Soprattutto, l’ultima brillante sorpresa del debutto, ma decisamente troppo dinamica. In tutti i sensi: compreso il fatto che invece di camminare corre.

Pasolini.zanelli@gmail.com