Alberto Pasolini Zanelli
Ci è voluto appena un giorno perché
si cominciasse a chiarire a Washington il significato del licenziamento di John
Bolton da una carica che formalmente era quella di consigliere per gli aspetti
militari della politica estera americana, ma che in realtà ha fra i suoi
aspetti sorprendenti e un po’ misteriosi il significato di un autolicenziamento
di uno dei protagonisti. Il contrasto è anche formale: Trump annuncia di avere
rimandato a casa Bolton, Bolton afferma di essere stato lui ad andarsene. Su questa
alternativa, densa di significati politici, si è inserito il dettaglio dell’orario
della telefonata di licenziamento, che secondo le ultime indiscrezioni sarebbe
emerso dopo meno di mezz’ora. Non è la prima volta, per la verità, che il
licenziato affermi di essersene andato lui. È una formulazione che salva o
dovrebbe salvare il suo prestigio, ma in questo caso non sono soltanto gli orologi
che non combinano, ma anche le versioni dell’ultimo colloquio faccia a faccia. È
possibile che Bolton sia uscito dal portone ancora indeciso sul da farsi, ma abbia
deciso, o sia stato deciso, a dimettersi dalla telefonata dalla Casa Bianca che
ha ricevuto meno di trenta minuti dopo e che non comprendeva evidentemente
soluzioni alternative intermedie. Si sono diffuse nel frattempo, inevitabili,
le voci secondo cui Bolton sarebbe stato spinto fuori dal suo rivale nel
governo, Mike Pompeo, con cui i contrasti si erano fatti sempre più frequenti e
sempre meno componibili. Una spiegazione politica generale non è facile: di
solito se qualche ministro perde il posto, lo fa perché ha opinioni e iniziative
scoperte e coerenti in contrasto profondo con il capo dell’esecutivo. Ma fra Trump
e Bolton non c’è mai stata, tranne gli ultimi giorni, una contrapposizione non
conciliabile nella direzione diretta della politica estera. Donald Trump,
presidente inatteso e fecondo di bruschi capovolgimenti di linea e anche della
direzione concordata con gli stretti collaboratori e soprattutto per la
frequenza con cui questi ultimi sono stati spinti fuori dalle rispettive
poltrone. Si possono contare a dozzine e pochi giorni bastano a scoprire e
pulire le “deviazioni”, ne accadono un po’ in tutti i terreni, dalle scelte generali
in campo economico, ai rapporti con i Paesi alleati e anche, e soprattutto, con
quelli tradizionalmente ostili agli Stati Uniti. Più emergono dettagli, anche
discutibili, sulle iniziative russe di spionaggio diplomatico nei confronti
degli Stati Uniti, più le frequenti contraddizioni sono aperte. Rimangono in
vigore molte delle sanzioni contro la Russia mentre si ricompongono i rapporti
fra Trump e Putin. Nel Medio Oriente Washington ogni pochi giorni annuncia
misure sull’orlo di una guerra che poi vengono cancellate a distanza di giorni
o di poche ore. Dall’Afghanistan alla strategia delle “guerre commerciali” con
la Russia, adesso perfino un’iniziativa di incontro diplomatico con Paesi “ribelli”
come dell’America Latina, disponibilità di Washington di riaprire colloqui con
l’Iran contemporaneamente alla nuova strategia in Afghanistan. Tutte iniziative
che contrastano con gli annunci con cui Trump insaporì la sua inaugurazione di
presidente e che trovarono nella nomina di Bolton, il più scopertamente falco
nella storia non bellica dell’America.
Adesso il suo licenziamento, che
può avere almeno due significati: un capovolgimento generico della politica
estera in collegamento con un ribaltamento dell’immagine di Trump, adesso che
si apre la fase decisiva della campagna elettorale. Non è forse un caso che fra
i diretti collaboratori dell’attuale inquilino della Casa Bianca si accresca
quasi ogni giorno il ruolo di un vicepresidente come Joe Biden “colomba” di poche
e accorte parole e, contemporaneamente, l’apertura dei cancelli per lasciare
uscire o espellere i loquaci falchi.