Alberto Pasolini
Zanelli
Due punti
geografici hanno governato nelle ultime ore le decisioni nel mondo. E presumibilmente
continueranno ad essere nel futuro immediato i centri delle sue ansie: Gerusalemme
e Washington. Dalla prima ci si aspettava di conoscere il risultato quasi decisivo
di una prova elettorale. Dal secondo l’attesa riguardava le parole o i silenzi
che queste cifre avrebbero provocato le reazioni e le decisioni dell’uomo più
potente del pianeta ma anche, nell’apparenza di queste ore, il più indeciso. L’America
ha sempre aiutato o cercato di aiutare Israele fin dalla sua nascita,
Gerusalemme ha influito negli umori degli americani e dunque nelle scelte della
Casa Bianca. L’attesa di queste ore si coagula su due scelte: gli israeliani
avrebbero confermato, o almeno salvato, la leadership storica di Benjamin Netanyahu,
il centro del potere americano ne avrebbe e ne avrà tenuto conto nelle sue
decisioni riguardanti il complesso del Medio Oriente.
La leva delle
scelte era in Israele l’urna elettorale. A Washington l’interpretazione di un
gesto di guerra a pochi chilometri di distanza: la fetta dei cieli dell’Arabia
Saudita, zona “calda” per un’aggressione partita da un Paese vicino e da una
scelta di potere non identificabile finora con sicurezza. Alcuni oggetti
volanti che esistono da pochi anni sono stati colpiti da altri strumenti aerei
di origine sospettata ma fino a queste ore non identificata, nonostante una
particolarità senza precedenti: gli autori dell’attentato hanno comunicato la
propria identità e se ne sono vantati: se la fiera comunicazione corrisponde a
verità, si tratta di una “milizia” teoricamente privata, ma in realtà strumento
abituale di un Paese, l’Iran, e di una milizia patriottica e religiosa, quella
sciita, di nuovo in azione contro un bersaglio di identità araba e di fede
musulmana sunnita. Le stesse forze che si affrontano da anni anche in Siria e
nello Yemen. Il nemico colpito non ha finora confermato l’identità dell’aggressore.
Il governo americano ha indicato chiaramente la propria identificazione, i
propri sospetti, le proprie reazioni. La “milizia sciita” (nella sua branca
Houthi, attiva soprattutto nello Yemen) è notoriamente sostenuta, finanziata, armata
e diretta dal governo iraniano, parte dirigente più che complice delle ostilità
in corso nel Paese arabo oggi più insanguinato di quell’intera area della
Terra. Gli obiettivi colpiti erano alzati nei cieli dell’Arabia Saudita. Non
per la prima volta, ma con una intensità bellica senza precedenti.
Gli esperti di Washington
e di Riyad hanno analizzato le foto dei satelliti e le altre prove come
strumenti di quel conflitto e lanciato le loro accuse, ma non hanno finora identificato
ufficialmente la loro origine e identità. L’hanno lasciata aperta per potere
identificare il vero colpevole, l’Iran, in modo da poter compiere una rappresaglia
in prima persona e di dimensioni superiori agli “incidenti” precedenti.
L’identificazione
decisiva era attesa da Washington e personalmente dal presidente Trump, che ha
invece scelto identificazioni più vaghe. Per prendere tempo, evidentemente, per
diversi motivi. Il primo, più evidente, di politica interna. Lo “stato maggiore”
di Washington è da alcuni giorni in fase di “ristrutturazione”. Più evidente
nel “licenziamento” del principale consigliere militare, John Bolton,
considerato da anni come il “super-falco” del Pentagono, già in altre occasioni
messo da parte dall’establishment bellico (per esempio durante la
presidenza Bush, al tempo della rappresaglia contro la strage terroristica di
New York. Bolton era poi riemerso, con un ruolo importante, anche se a volte in
minoranza nei confronti degli altri consiglieri più “moderati”. Il suo addio
all’attuale presidente è stato rivendicato da entrambi i protagonisti della “rottura”,
con la conseguenza che di super-falchi al Pentagono e alla Casa Bianca ci sia
per il momento il solo Mike Pompeo, detentore però di due cariche potentissime,
fra cui la Segreteria di Stato, con poteri che richiamano quelli storici di
Kissinger. Era dunque prevedibile un “confronto”, rilevabile anche in una “cautela”
non abituale nelle scelte e nel linguaggio di Trump.
Attribuibile però
anche all’attesa dei risultati elettorali in Israele. Netanyahu, gemello di Bolton
come intransigenza e di potere più volte confermato nei circoli governativi di
Gerusalemme, aveva affrontato in questi giorni una opposizione molto più solida
ed aggressiva di altre volte e con un leader rivale fornito stavolta di una
forza elettorale compatta. I primi risultati di questo ultimo test sembrano
aver confermato quelli del penultimo “duello”, che si era risolto in una specie
di “pareggio” evidentemente provvisorio. Se Netanyahu dovesse stavolta perdere
il potere, questo contribuirebbe a spiegare l’insolita cautela, soprattutto
verbale, del presidente americano, che qualcuno ha di recente definito “il
Netanyahu di Washington”. Cautela sia nei confronti dell’Iran (da tempo nemico
numero uno della Superpotenza), sia nelle più recenti cautele riguardanti l’Afghanistan
e la Corea.